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The Scope Of Separation (2017) di Yue Chen – Torino Film Festival 35

Trentacinquesima edizione del Torino Film Festval. Undicesimo film che sono riuscito a vedere tra i numerosi film proposti. La sinossi del film in questione è particolarmente semplice ed apparentemente priva di alcun interesse: Liu Shidong occupa le sue giornate ciondolando tra un bar e l’altro, fumando sigarette in serie. Il suo rapporto con Yuzi non va oltre un’amicizia senza impegni, ma l’incontro con Yao Ye e lo sviluppo della loro relazione sembrano intaccare il suo equilibrio da sfaccendato. Dove il cinema in costume guarda soprattutto a nobili e regnanti e quello hollywoodiano ha sovente dei protagonisti che provengono dalla borghesia, nei film indipendenti si è imposto uno standard quasi opposto. In particolare in Cina, dove la settima arte è solita concentrarsi sulle difficili condizioni di vita che accomunano moltitudini di abitanti, disseminate nel Paese più popoloso al mondo. Per il suo debutto alla regia, invece, Chen Yue sceglie un punto di vista radicalmente differente: il suo protagonista, Liu, è il giovane rampollo di un imprenditore, che vive a Taiyuan, popolosa città dello Shanxi, e non si preoccupa minimamente del proprio futuro, preferendo naufragare dolcemente tra alcol e sigarette. Nemmeno con il gentil sesso può né vuole assumersi impegni. Una condizione di cui Liu non va fiero – arriva a definire il suo uno stato “vegetativo” dell’esistenza – ma che non fa nulla per mutare. La “storia di un fannullone”, ambientata nella Cina dei nuovi ricchi, presenta ragioni di fascino per le riflessioni storico-filosofiche che suscita, di fronte a un Paese comunista immerso nel paradosso di un turbocapitalismo di fatto, pieno di contraddizioni. The Scope of Separation è un’esplorazione della vacuità assoluta di una Cina che sembra aver rimosso ogni traccia della propria identità, totalmente asservita a usi e costumi globalizzati. Restano solo il mahjong o ridicoli cimeli turistici a ricordare da dove provengano Liu e i suoi amici. Lontano da quasi tutti gli stereotipi del romanzo di formazione e dai cliché che spesso accompagnano le opere prime, quella che costruisce il regista cinese è una storia leggerissima, quasi inesistente, come nei film della Nouvelle Vague o negli indie americani, ma che racconta con grande lucidità e amaro disincanto la vita della Cina di oggi e dei suoi abitanti. E lo fa evitando di addentrarsi nella descrizione della marginalità – umana e geografica – oppure rappresentando la povertà, i rapporti di potere o la politica, ma scegliendo invece la prospettiva del capitale. Un personaggio come Liu è senz’altro insolito anche per il cinema indie, cinese e non. Non ha alcun tipo di spessore, pensa e agisce in maniera banale, fa discorsi privi di interesse e di profondità. Non ha un pensiero, un’idea, un’opinione su quasi nulla e vive senza scegliere, lasciandosi trasportare dagli eventi. Non è nemmeno un antieroe, un esempio negativo o il simbolo di qualcosa (un ceto sociale, una generazione), è semplicemente insignificante. Eppure il film che Yue Chen gli costruisce intorno funziona e tutto quello che gli accade produce un senso. Mostrare una vita sprecata, che non va da nessuna parte e che a causa del denaro finisce per sbiadirsi in una serie ripetitiva di transazioni, non sarà forse una scelta originalissima, ma mette a fuoco molto bene una prospettiva marginale del rapporto fra individuo e capitale. Inserendolo inoltre nella complessa macchina sociale della Cina contemporanea. Liu è come intrappolato in se stesso, Liu è prigioniero della sua condizione, dalla quale non riesce a uscire. E si tratta proprio di una prigione, che non è tanto (o non solo) la città in cui vive o in senso allargato la Cina tutta (la “fuga” di Yuzi verso la Francia fa evidentemente da contraltare alla condizione di Liu), ma una logica, uno stato mentale che il ragazzo stesso si è costruito. La colpa è certamente sua – che manca completamente di qualsiasi motivazione o voglia di cambiare – eppure qualcosa di sbagliato anche nella società che lo “produce” si scorge, almeno in lontananza. È una falla nel sistema, Liu, uno che fa del vuoto che lo circonda il contenuto della propria essenza – e i lunghi dialoghi e i flussi di coscienza che non dicono nulla sembrano l’emblema proprio di questo. Ma se anche dopo tutti i fallimenti non impara altro che a continuare a vivere come ha sempre vissuto – benché il finale contempli la possibilità di un cambiamento – è anche perché quello che gli sta intorno è effimero e incorporeo come il fumo di sigaretta nel quale si trova costantemente immerso. Purtroppo tutto questo si rivela alla fine del film estremamente piatto e banale, privo di alcuna profondità o momento di poesia cinematografica, dunque si tratta questa volta di un film cinese quasi molto brutto.

 
 
 

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