Normal People: la recensione | TV
- Eugenio Grenna
- 9 giu 2020
- Tempo di lettura: 3 min

La centralità del tempo, e gli effetti che questo produce sui corpi e sulle anime. Tutto questo
era fondamentale per il ciclo delle stagioni di Éric Rohmer (dal Racconto di primavera del 1989 a Un ragazzo, tre ragazze del 1996). Così com'era fondamentale per il ciclo di Antoine Doinel di François Truffaut (da I 400 colpi del 1959 a L'amore fugge del 1979). E poi ancora per il cinema documentaristico di Michael Upted, fino a Richard Linklater. Di cui ricordiamo bene la trilogia dei Before. Un modello di cinema scarno e intimo, sul racconto di un amore così potente e nostalgico rincorso nel tempo naturale. Senza artifici cinematografici e quindi privo di invecchiamento fittizio. Processo che Linklater replica poi per Boyhood, comprimendolo chiaramente. Film che ho amato dalla prima all'ultima inquadratura. Con quel taglio finale così preciso sullo sguardo, che si fa poi sorriso reciproco tra il nostro protagonista e la ragazza. Una premessa necessaria per ricordare cicli cinematografici importanti sul racconto dell'amore nel tempo. O più semplicemente sul percorso di crescita di uno o più individui, ed il superamento difficoltoso e spesso traumatico degli ostacoli della vita e poi l'accettazione. Normal People, che viene da un romanzo (Sally Rooney, l'autrice, ha avuto un ruolo importante nella sceneggiatura di questa prima stagione), condivide totalmente l'intero discorso. Si discosta quasi immediatamente dal canone classico del teen. O del racconto sentimentale e adolescenziale in qualche modo spensierato e talvolta superficiale che conosciamo bene. Vuole essere altro fin dal primo episodio, e l'ottimo lavoro in regia di due grandi come Lenny Abrahamson (Garage ma anche The Room) e Hettie Macdonald (Fortitude), rende questa volontà, questo desiderio, più che evidente. Normal People sembra fare una scelta ben precisa e piuttosto interessante. Ossia soffermarsi sui luoghi, su quello che è stato e quello che potrebbe
essere lì e da nessun'altra parte e quindi sulla centralità del tempo, non tanto sulle persone, ma sui luoghi in cui queste si sono mosse e ancora (forse) torneranno a muoversi. C'è un grande lavoro a livello registico e necessariamente scenografico sulla casa, le stanze, le camere da letto e via dicendo. Si potrebbe riflettere su quanto il tempo sia effettivamente il protagonista di questa serie, e così anche per le ambientazioni. Dalle città, fino ai letti di queste camere così importanti e nient'affatto casuali. Il tempo che produce effetti, tangibili, inevitabili, impossibili da contrastare e conseguenze in qualche modo ingiuste. Si fa dunque racconto d'accettazione. Non a caso, la scelta di un amore travagliato, tra due persone "come tante", in transizione tra l'età giovane (il liceo)e quella adulta (college e tutto quello che ne consegue). Una transizione e quindi crescita sentimentale piena di contrasti e difficoltà. Ma sempre e comunque presente, concreta nella sua esistenza apparentemente continua e senza fine tra queste due persone irrisolte, imperfette, che solo nell'accettazione reciproca e totale possono riuscire a vivere il sentimento che le unisce. L'importanza dello sguardo per Normal People. Una serie che preferisce infatti riempire di silenzi e sguardi le scene, piuttosto che di fiumi di parole e fastidiosi voice over. I registi mantengono sempre un contatto molto stretto con i personaggi, pochi campi lunghi. C'è questa scelta molto forte e interessante rispetto allo sfruttare quanto più possibile personaggi laconici (da sempre molto distanti rispetto al cinema/serialità sentimentale), che muovono la narrazione e la scena con lo sguardo ed il silenzio e mai con le parole. Abrahamson e Macdonald hanno fatto davvero un ottimo lavoro. Quello che sono riusciti a portare è in qualche modo un
racconto universale sulle sofferenze e le cicatrici di un passato forse mai superato. Sul male che nasce nella famiglia e si protrae, e poi sui cambiamenti reciproci talvolta complessi da accettare e apprezzare. Ci sono poi parecchie inquadrature di una potenza rara. Una di queste è sulle mani dei due, che vorrebbero stringersi, ma che si limitano a sfiorarsi. La necessità di mantenere la distanza ed il desiderio di toccarsi reciprocamente, convivono all'interno di un'inquadratura e di una scena di party notturno, emotivamente forte e decisiva. Normal People è secondo me una serie molto bella e complessa, soprattutto nel suo continuo oscillare tra archi temporali e stati d'animo differenti. Una scrittura attenta e matura, rende poi il racconto assolutamente adulto e molto poco adolescenziale. Due parole anche sulla fotografia. Poiché tutto è avvolto, sempre o quasi, da un'atmosfera plumbea malinconica e struggente, come di fatto è quest'intera prima stagione. E la fotografia racconta così bene i luoghi, i silenzi ed i suoi personaggi. Quando questo avviene si è di fronte ad un grande film o ad un grande prodotto seriale. Normal People rientra senza dubbio in questa categoria. E che bravi i due interpreti, da Paul Mescal a Daisy Edgar-Jones, che mi ricorda una giovane e timida Anne Hathaway. Che belle queste narrazioni nel tempo e che bel lavoro di sceneggiatura e regia. Normal People, ovvero, sull'importanza del rincorrersi reciprocamente nei luoghi del tempo.
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