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Mine (2016) di Fabio Guaglione e Fabio Resinaro – Film Recuperati Home Video


“Giuro solennemente di essere un cavaliere coraggioso, riverente e sempre gentile, un campione di verità e giustizia, e giuro solennemente di essere onesto e buono. Giuro di proteggere il nostro regno, e giuro tutto questo al vostro cospetto, mia principessa.” Mike Stevens (Armie Hammer)

La sinossi: Mike è un tiratore scelto dei marines che assieme a Tommy, compagno e amico di sempre, viene inviato segretamente nel deserto per uccidere un pericoloso terrorista. Durante la missione qualcosa non funziona e i due soldati, si perdono in una tempesta di sabbia e restano isolati dal comando. Alla ricerca di una via di fuga, con i terroristi alle spalle, finiscono in un campo minato e Mike calpesta accidentalmente una mina mentre il compagno viene dilaniato. Bloccato nel mezzo del deserto, in campo nemico e senza rifornimenti, dovrà cercare di sopravvivere.

Il mio commento: Mine si presenta come un film americano perché è un film americano. Anche se lo dirigono e lo scrivono due italiani, Fabio Guaglione e Fabio Resinaro. Anche se è girato in Spagna. Ed è americano non per la sua forma (che pure…) o perchè il protagonista è Armie Hammer ma perché contiene temi e idee che da decenni permeano il cinema statunitense. L’espediente pensato per creare salivazione nelle bocche degli spettatori potenziali (un soldato è bloccato nel deserto perché ha messo un piede su una mina, se lo solleva esplode) non è un’esclusiva oltreoceanica, Denis Tanovic già aveva girato qualcosa di simile e non è l’unico. È tutto ciò che accade al soldato semmai, le ossessioni che ne funestano la testa, le visioni, i problemi, il carico di conflitti che si porta dietro e che esploderanno nelle terribili notti desertiche, ad essere americano e a iscrivere il film all’albo del cinema statunitense. A noi poi il film “suona” (letteralmente) americano perché i dialoghi, specie nella prima parte più scolastica e convenzionale, parlano il “doppiaggese”. Scritto in italiano, tradotto in inglese e poi adattato di nuovo in italiano, lo script sembra aver perso un po’ di personalità in questo ping pong. Per fortuna c’è il resto della storia a parlare. Nelle due giornate (e due notti) nel deserto, immobile, in terribile attesa di sopravvivere, il protagonista viaggia con la testa e quella forse è la parte migliore. Guaglione e Resinaro gestiscono molto bene il rigore dell’intreccio, la plausibilità del contesto e l’ineluttabilità delle scelte per evitare di perdere lo spettatore con svolte assurde ed eventi incredibili, in un genere in cui invece la credibilità è tutto. Talmente che arrivano a potersi permettere un finale non facile. Eppure il piccolo passo in avanti rispetto alla media il film lo fa quando oltre a narrare in maniera asciutta e stringente gli eventi si permette qualche piccola deviazione dalle gabbie (dorate!) del B movie, inventando piccole immagini che raccontano i soliti problemi con soluzioni convincenti. Sono i cani che arrivano di notte e diventano uomini intenti ad aggredirlo (in un quadretto che pare una pittura ad olio) oppure la posizione inginocchiata che il soldato è costretto ad assumere e che si carica di molti significati diversi. Lì emerge una maniera propria e unica di fare cinema, cioè di raccontare una storia usando le immagini, affiancandole per farci qualcosa di diverso e personale. Non è difficile nel finale sentire un po’ di pesantezza per le sempre più frequenti divagazioni oniriche, i flashback e i flashforward, ma lo stesso sarebbe ingiusto farne una colpa a Mine, tanto è capace di muoversi con coscienza e intelligenza su quel crinale sconosciuto al cinema italiano che separa la necessaria ripetitività propria del genere, con l’agognata originalità dello stile. Fabio Guaglione e Fabio Resinaro al loro esordio come registi hanno deciso di porre l’asticella decisamente in alto. Perché la decisione iniziale era quella di conservare unità di tempo e di luogo nlla narrazione essendo consapevoli che c’era già chi, con Buried – Sepolto, aveva toccato i vertici chiudendo il protagonista in una bara. Hanno così deciso di invertire la situazione ponendo il loro protagonista in uno spazio aperto ma al contempo aspro bloccandolo in una condizione di immobilità. Nel passato c’era già stato un film che collocava un personaggio su una mina che poteva esplodere al minimo movimento. Si tratta di No Man’S Land opera prima di Danis Tanovic. Mentre però in quel contesto (la guerra serbo-bosniaca) la riflessione si orientava sul versante politico qui la scelta è decisamente diversa. Perché i due Fabio (come si firmano nei titoli di testa) hanno deciso di affrontare il tema delle mine con un’ottica del tutto particolare. Mentre non ci fanno dimenticare che diversi territori del nostro pianeta sono disseminati di ordigni che seminano morte per anni, dopo che le guerre sono formalmente terminate, allargano il campo e, grazie a un Armie Hammer decisamente all’altezza del ruolo, aprono il film alla dimensione psicologica. Perché non solo un soldato in zona di conflitto può trovarsi bloccato su una mina rischiando la propria esistenza. Tutti noi possiamo aver vissuto, nel corso delle nostre vite, uno o più momenti in cui ci sentivamo paralizzati dinanzi alla paura che ci imponeva una scelta o a un ricordo negativo del passato che ci impediva di andare avanti. I due registi sanno tradurre in immagini, senza perdere mai di tensione (perché questo era il rischio), questa condizione interiore. Il deserto si trasforma così in uno spazio in cui, come nell’astronave di Solaris di Andrei Tarkovsky, l’inconscio si materializza non consentendo fughe.

 
 
 

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