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Jumanji: Benvenuti nella giungla (Jumanji: Welcome to the Jungle; 2017) di Jake Kasdan – Juma


Jumanji – 1995 – Joe Johnston Fiaba Perché piacque così tanto al pubblico e non fu capito assolutamente dalla critica? Perché arrivò come un fulmine a ciel sereno dentro la testa dei bambini americani, e non solo, di quel lontano 1995? Perché faceva paura. Metteva a disagio. Era semplice e spaventoso. L’originale Jumanji… era puro terrore. L’incubo dentro l’adattamento cinematografico del romanzo del 1981 a firma Chris Van Allsburg risultò sottile e perturbante non tanto per via di animali pestiferi che ti entravano in casa o infestavano la tua classica cittadina tranquilla (anche se la scimmia con il viso da adulto antipatico che carica da sola un fucile a pompa dentro una macchina della polizia è un’immagine ancora oggi veramente forte) quanto piuttosto per alcuni traumi infantili che andava a stimolare con una certa tetra dinamicità. L’ambientazione è fangosa e autunnale (foglie secche ovunque), i genitori ricchi e distaccati, il piccolo eroe wasp vittima di bullismo ma allo stesso tempo ignavo artefice del licenziamento di un lavoratore afroamericano pieno di voglia di fare e speranza (il che crea un senso di colpa lancinante nello spettatore immedesimatosi fin dal minuto 1 nel piccolo protagonista). Alan Parrish, in quel 1969 visivamente cupissimo, è innamorato di una ragazzina che sembra il doppio di lui (la cosa dava una sensazione di inadeguatezza sessuale pazzesca per un giovane spettatore maschio con prime pulsioni etero) e non solo ha genitori distaccati in un maniero gigantesco ma pure una compagna di giochi che lo abbandona in una dimensione terrificante (al contrario di Stranger Things) dandosela a gambe dopo che lui è stato risucchiato in un mondo pieno di pericoli e creature schifose. Prima di vedere questo inizio degno di un raccontino horror e freudiano di E. T. A. Hoffmann… abbiamo assistito a un prologo nel 1896 in cui due fratelli seppellivano tremanti dalle parti di Brantford, New Hampshire un gioco da tavola intitolato Jumanji.

Stile Mai visto Robin Williams così cattivo. Vogliamo concentrarci sulla recitazione inusuale dell’uomo più simpatico d’America dai tempi di Mork & Mindy, il quale aveva aumentato il suo credito di affetto presso il pubblico mondiale con Good Morning, Vietnam e L’Attimo Fuggente (rispettivamente prima e seconda nomination Oscar)? Il suo Alan Perrish, ritornato improvvisamente dalla dimensione di Jumanji nel 1995, è un bambino tremante in un corpo da adulto vestito con le foglie della giungla (questo accade al minuto 30 di una pellicola lunga 104′), ha uno stress post traumatico peggio dei reduci della Guerra del Vietnam, non nasconde evidenti brame vendicative nei confronti di quella ragazzina che lo lasciò prigioniero del gioco 26 anni prima e ha una certa difficoltà ad assumere un ruolo genitoriale durante la sarabanda del 1995 nonostante debba sopravvivere in compagnia di due fratellini (la sorella grande è Kirsten Dunst) e quella famigerata amica del 1969 diventata ancora più alta (una magnifica Bonnie Hunt) durante un’invasione nella Brantford di metà anni ’90 a base di bestiacce realizzate dalla Industrial Light & Magic fondendo cgi e animatronics.

Conclusioni

Il film di Joe Johnston non è solo una stravaganza effettistica cgi post successone di Jurassic Park (1993) a base di scimmie (simili ai gremlins), zanzare giganti, elefanti, leoni, piante carnivore, coccodrilli, ragni e un cacciatore colonialista di nome Van Pelt con la faccia uguale a tuo padre che ti vuole uccidere con la meticolosità del Terminator di Cameron (c’è anche una scena uguale a quel capolavoro sci-fi: Van Pelt va a comprarsi un megafucile in un negozio di armi della realtà 1995 per crivellare di colpi Alan). Jumanji è qualcosa di molto più profondo, freudiano e spaventoso: racconta di bambini amareggiati dalla vita (la piccola Dunst inventa storie macabre sulla morte dei propri genitori), di genitori irraggiungibili, di amici risucchiati nel vuoto, di padri che vogliono uccidere i figli e di amore per una ragazzina che si trasforma in odio puro (quando Robin Williams ritrae all’improvviso la mano con un ghigno ingannando Bonnie Hunt… è forse il suo momento più diabolico al cinema del quarantaquattrenne Williams prima del tentativo di diventare villain nei 2000 con One Our Photo di Romanek e Insomnia di Nolan). Rivisto oggi Jumanji è un film praticamente perfetto perché semplice, diretto, complesso ed elegante (la dimensione dove Alan è riuscito a sopravvivere per 26 anni fa ancora più paura perché non la vediamo MAI). Guardate quanto è buffa la critica cinematografica. Ecco un estratto del Maestro Roger Ebert dalla sua stroncatura del 1995 (la traduzione è nostra per cui chiediamo la vostra indulgenza): “Jumanji è stato presentato come un film di leggero intrattenimento estivo grazie a quel rassicurante luccichio negli occhi di Robin Williams presente in tutti i manifesti che hanno accompagnato la promozione della pellicola. In realtà il film rischia o di far scappare i ragazzini dai cinema per il terrore oppure di costringerli a trovare rifugio nell’abbraccio di mamma e papà. Quelli di loro che riusciranno a sopportarne la visione integrale saranno invece probabilmente visitati di notte da incubi a base di immagini raccapriccianti”. Condividiamo perfettamente l’analisi di Ebert di questo bizzarro prodotto audiovisivo del 1995. Ma per lui tutta quella stramba identità di Jumanji era un errore oltre che un terrore (soprattutto in base al prodotto editoriale che quei filmmakers volevano realizzare). Per noi invece le cose che scriveva il grande Ebert in chiave negativa non sono solo giustissime ma soprattutto hanno reso Jumanji quello che è: un indimenticabile cult movie generazionale invecchiato benissimo capace giustamente di generare 22 anni dopo il buffo e pregevole sequel attualmente nelle nostre sale.

Jumanji – Benvenuti nella giungla (Jumanji: Welcome to the Jungle) – 2017 – Jake Kasdan La sinossi: 1996: la scatola del gioco da tavolo Jumanji viene trovata su una spiaggia, esattamente dove l’avevamo vista al termine del film originale, ma quando il ragazzo che se la porta a casa capisce di cosa si tratta ne è molto deluso, perché gli interessano solo i videogame. Così nella notte il gioco si trasforma in una cartuccia per console. La stessa viene ritrovata oggi da quattro liceali in punizione, che scelgono i quattro personaggi restanti di un gioco per cinque player e commettono l’errore di interrompere la partita, finendo quindi intrappolati nel gioco e nel corpo dei personaggi che avevano scelto. Così il nerd è un fusto, il nero da atleta diventa spalla comica, la ragazza asociale è una sventola che scalcia a ritmo di musica e la reginetta, perennemente in caccia di like sui social, si ritrova per contrappasso nel corpo di un uomo di mezz’età in sovrappeso. Insieme dovranno superare varie sfide e riportare un gioiello incantato in cima a una montagna: solo così potranno ritornare a casa.

Il mio commento: Dwayne Johnson sta dimostrando sempre di più di meritare lo statuto di superstar guadagnato. Non solo è un attore molto migliore di quel che non sembrasse agli inizi della sua carriera (Pain & Gain l’ha dimostrato oltre ogni dubbio) ma ha il corpo, il volto e la padronanza dei toni perfetti per eccellere nel cinema leggero, sa farsi volere bene, sa piacere e sa usare le proprie caratteristiche per divertire. Senza di lui il reboot di Jumanji avrebbe avuto molta meno personalità, senza il suo corpo esagerato (credibile nell’azione), le sue espressioni “bollenti” (credibili nella commedia) e la sua capacità di passare dal molto enfatico al molto leggero con una sola battuta, il film non avrebbe trovato il mix perfetto che invece possiede. Dimostrazione di tutto questo è la figura di Karen Gillian, attrice altrove impeccabile, qui invece sempre un po’ spiazzata dal ruolo e dal film, in difficoltà e incapace di dare il proprio massimo. Attorno a Dwayne Johnson orbita tutto Jumanji, e questo nonostante ci vogliano 17 minuti perché si passi dai ragazzi protagonisti al mondo del videogame omonimo dentro cui i 4 liceali in punizione finiscono. Da The Breakfast Club a Indiana Jones, tramite un videogioco invece che un gioco da tavola come era nell’originale (ma le differenze tra i due sono così tante che è quasi sbagliato parlare di remake o reboot, sono proprio film diversi), Jumanji si propone con arroganza come il nuovo modello del cinema per tutta la famiglia fatto di avventura e buoni sentimenti facili facili. Solo che questo sesto lungometraggio, in una carriera fatta più che altro di tv, di Jake Kasdan desidera anche guardare a Guardiani Della Galassia e al nuovo intrattenimento ad altissimo budget pensato in ottica mondiale. Jumanji del 2017 è dunque una fusione di diversi tipi di film, ha dei ragazzi “con poteri” che gli vengono dallo stare nei corpi dei loro avatar videoludici, ha dei quest, un villain anch’esso con poteri ma oscuri, ha la musica anni ‘80 e un umorismo molto pronunciato. È la traslitterazione delle piccole avventure Marvel in un altro mondo fantastico in cui tutto è esagerato, quello dei videogiochi. Tuttavia, nonostante la centralità che un videogioco ha nella storia, Jumanji non vuole mai davvero fondersi con quel mezzo di comunicazione, preferisce essere cinema al 100%, fare avventura come si deve (e specie nel finale ci riesce), creando dei personaggi e i loro doppi in maniera elementare (ognuno, nel gioco, finisce per essere l’opposto di quel che è nel mondo reale) per poi sviluppare lentamente le loro ossessioni fino a farle scontrare comicamente. Senza nessun pensiero che non sia divertire, Jumanji centra tempi e ritmi, ha una sceneggiatura di ferro e sfrutta al meglio il genio di Jack Black (direttamente contrapposto all’altra macchietta, Kevin Hart, e decisamente superiore per profondità e capacità di raggiungere il medesimo obiettivo con un quarto dei movimenti e delle urla). Ovviamente non ha la stranezza dell’originale, ne ha perso tutta quella curiosa maniera di non somigliare ad altro, anzi è diventato più un Tron o quel tipo di film per ragazzi, ma nel farlo ci ha guadagnato in compattezza e sfrontatezza. Alla fine dunque, andando a controllare la carriera degli sceneggiatori, non sorprende per niente che prima di centrare alcuni ottimi film si siano formati nella televisione. Jumanji ha nella scrittura quel rigore, quella precisione e quella capacità di non tradire che ci siamo abituati a pretendere dalle serie tv.

 
 
 

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