I segreti di Wind River (Wind River; 2017) di Taylor Sheridan – Saggio Breve
- Eugenio Grenna
- 27 apr 2019
- Tempo di lettura: 10 min

TRAMA:
Cory Lambert, esperto inseguitore e cacciatore, scopre il corpo congelato di una ragazza adolescente. Fa allora squadra con Jane Banner, nuova agente dell’Fbi, per capire cosa sia accaduto alla giovane e chi sia il responsabile di un così macabro crimine. Man mano che l’indagine si approfondisce, la vita dei due investigatori è sempre più a rischio.
COMMENTO:
Cowboy e indiani delle nuove frontiere, tra western crepuscolare e moderno “Inspired by actual events” Comincia con queste parole “I segreti di Wind River” (Wind River; 2017; USA), seconda regia di Taylor Sheridan, ottimo sceneggiatore e promettente regista statunitense classe 1970. Nel corso degli ultimi anni ci sono stati molti casi di film recanti le diciture: “Tratto da una storia vera” o “Ispirato a vicende reali”. Quello più celebre è “Fargo” (1996; USA; Joel & Ethan Coen), anche se si trattò di un gioco messo in atto dal duo Coen, per attirare maggior pubblico. Ma soprattutto per affidare agli eventi assurdi e sopra le righe mostrati nel film, una certa credibilità che soltanto una storia vera avrebbe avuto. I fratelli Coen dissero infatti: «se il pubblico crede che una cosa sia basata su un evento reale, questo ti dà il permesso di fare cose che altrimenti la gente non potrebbe accettare». Taylor Sheridan invece utilizza questa dicitura proprio perché interessato ad un cinema di grande intrattenimento. Portatore però di una dose fondamentale di denuncia sociale. Nel caso di “Sicario” film del 2015, scritto dallo stesso Sheridan e diretto dal regista canadese Denis Villeneuve, si presentavano infatti le dinamiche del thriller canonico sul narcotraffico ed in parallelo una forte vena di denuncia sociale e politica. Basti pensare allo sguardo che Sheridan/Villeneuve indirizzavano ad argomenti quali: corruzione delle forze di polizia, dei politici, la sorprendente attenzione al sottile confine che spesso separa i criminali/narcotrafficanti da chi invece dovrebbe dar loro la caccia. Operazione rischiosa perché non in linea con le dinamiche del cinema thriller americano classico. Quello in cui “il buono” ed “il cattivo” sono sempre due figure opposte e quindi perfettamente distinguibili l’una dall’altra. Così come nel caso di “Hell Or High Water”, piccolo film indipendente (in seguito acquisito da Netflix), scritto da Sheridan e diretto da David Mackenzie. Un thriller sempre a cavallo tra il dramma ed il western moderno, in cui Sheridan raccontava di un’America violenta, di sistemi bancari cinici e quasi criminali, povertà famigliare in contrapposizione alla ricchezza delle grandi aziende in cerca di petrolio e luoghi da sfruttare e poi abbandonare. Un film molto interessante e profondamente attuale, interessato a quelli che Cormac McCarthy definirebbe “gli ultimi”, coloro che si arrabattano come possono, vivendo di piccole e grandi attività illegali, divenendo dunque dei Robin Hood sporchi e violenti del nuovo mondo. Nel 2017 Taylor Sheridan che, insieme allo Scott Cooper di “Out Of The Furnace” e “Hostiles” si dimostra attualmente come il miglior narratore di cinema western in vita (non è un caso che nel 2018 andrà a scrivere e dirigere una vera e propria serie western moderna per la televisione con l’icona di quel cinema lì, Kevin Costner), scrive e dirige un film duro, spietato, di grandi silenzi e sconfinate ambientazioni. Si tratta di Wind River. La pellicola conclude una trilogia di sceneggiature scritte da Sheridan, dopo Sicario e Hell or High Water, che affrontano il tema della moderna frontiera americana. Quella di Wind River è però tutt’altra operazione cinematografica. Dei tre casi precedentemente elencati, quello di Wind River è l’unico in cui i canoni del genere western sembrano prendere immediatamente il sopravvento, rispetto alle dinamiche da cinema giallo/thriller/action. Ciò diviene chiaro nel momento in cui (superati i 15/20 minuti introduttivi), polizia locale, FBI ed un solitario e malinconico cacciatore del luogo si confrontano dinanzi al cadavere ormai congelato di una donna indiana. Un momento piuttosto interessante, seppur apparentemente irrilevante, in cui l’agente FBI (Jane Banner/Elizabeth Olsen) propone ed in un certo senso affida totalmente l’incarico di trovare l’assassino proprio a quel cacciatore malinconico e solitario e non alle forze di polizia. Un dettaglio che nel cinema western è ricorrente, basti pensare ai cacciatori di taglie pagati per andare a scovare tra le lande desolate e le immense praterie, assassini e criminali di ogni tipo, uomini violenti e dalla morale di ferro, in grado di agire oltre ogni giurisdizione e legge. Da “Il cavaliere della valle solitaria” a “I magnifici 7”, fino a “Il grinta” e “Gli spietati”. C’è infatti uno scambio tra i due a sottolineare questa situazione di accordo non puramente canonica: Jane – Sarebbe disposto ad aiutarmi? Mi scusi può ripetermi qual è il suo lavoro? Cory – Sono un cacciatore Jane – Un cacciatore di puma? Cory – Di predatori.. Jane – Che ne pensa di venirne a cacciare uno per me allora? Cory – Ok.. Il thriller passa totalmente in secondo piano non appena ci si rende conto dell’estrema dilatazione e rilassamento dei toni del film. Quindi rari inseguimenti, sparatorie o toni frenetici da action hollywoodiano con grandi star (che qui in ogni caso non mancano). A partire dal protagonista, Cory (un sorprendente Jeremy Renner, sempre malinconico, silenzioso, attento e dolente), un cowboy vero e proprio del ventunesimo secolo che, diviene cacciatore e si muove tra i confini e le lande desolate del Wyoming. Non più in sella ad un cavallo, ma ad una moderna motoslitta. Decisivo infatti uno dei primi momenti padre/figlio presentati nel film. In cui i due non si muovono tra i grattacieli di una grande città, non vanno in auto lungo strade apparentemente infinite, ma trascorrono e vivono quello che è una sorta di rito, ovvero domare il proprio cavallo, dargli da mangiare e poi montarlo. Nel modo in cui Sheridan mette in scena queste dinamiche da ranch e quindi puramente western, è chiara la scelta della direzione del film. Così come il grande pregio di utilizzare l’ambientazione come vera e propria protagonista del film. Spazi desolati in cui regna un silenzio a tratti teso e di grande tensione, imbiancati di neve, in cui gli uomini che vi si muovono appaiono spesso inquadrati in campi lunghi e lunghissimi, tali da renderli piccoli punti apparentemente insignificanti, considerati in relazione al mondo in cui si muovono. Il discorso che Wind River tenta di proporre viaggia su un binario doppio: 1) Il riconoscimento dell’autorità in un luogo di frontiere e confini; 2) Il legame tra gli uomini, le bestie ed il luogo in cui sono relegati. Per quanto riguarda il primo punto, all’interno del film, fin dal principio vengono presentate più situazioni (alcune anche ironiche), basti pensare al breve dialogo tra l’agente FBI e la guardia di polizia locale (Ben Shoyo/Graham Greene) in cui la prima dà al secondo (anche se non esplicitamente) dell’inutile, definendo la cattura dell’assassino “un vero e proprio miracolo”. Oppure l’ironia della guardia di polizia locale nei confronti dei vari giovani ex galeotti, dei quali ha mandato in carcere i padri, o più generalmente i genitori. Questo perché nella riserva di Wind River e territori circostanti (spazio definito grande quanto il Rhode Island) non esiste una vera e propria autorità, se non le poche guardie di polizia locale, praticamente assenti. Luoghi di grande desolazione (interessante come Sheridan sceglie di presentarli nelle prime inquadrature, con alcuni indiani in gruppo che si scaldano le mani dinanzi a catapecchie, trailer park e fuochi improvvisati stile Homeless). Diviene infatti questo riconoscimento d’autorità uno degli elementi di grande interesse e tensione del film. Il cui punto massimo è rintracciabile in uno stallo alla messicana che ad un certo momento coinvolge una squadra di contractors, uomini dello sceriffo locale, l’agente FBI ed in seguito Cory, il cacciatore. Uno stallo che ricorda a tratti quello dell’ormai cult “Il mucchio selvaggio” di Sam Peckinpah, nonostante manchi totalmente il tanto acclamato uso del ralenty del film appena citato. Sheridan gli affida tutto il senso più specificatamente politico del film. Due forze che si scontrano, un’unica figura portatrice di giurisdizione e quindi permesso d’agire (così come avveniva all’interno di Sicario con Kate/Emily Blunt), tensione, confronti, accerchiamenti, totale mancanza di riconoscimento d’autorità, la cui conseguenza è una continua arma in mano puntata sull’altro. Poiché nemmeno una tra tutte quelle figure ne ha un’idea chiara, tale da ordinare a tutti gli altri di abbassare le armi. Chi governa realmente il confine? Chi è realmente la Legge in questa zona? Le riserve dei Nativi Americani sono ancora totalmente autonome ed in grado di autogestirsi o costrette a soccombere e sottostare alle leggi espansive, talvolta ciniche e crudeli dei “bianchi americani”? Wind River è proprio a queste domande che cerca continuamente di dare una risposta, o quantomeno mostrarne i limiti e le contraddizioni. Attraverso un parallelismo chiaro tra mondo attuale e mondo del west. In cui uomini dalla morale di ferro, con un senso della giustizia integerrimo e spinti da urgenze morali o incarichi affidati uccidevano senza pensarci due volte. Riparando a torti subiti o portando a termine vere e proprie vendette. Il cacciatore interpretato da Jeremy Renner sembra infatti non distanziarsi troppo da questa descrizione. Anch’egli infatti sceglie di prendere parte all’indagine (pur non essendo un uomo di legge) per soddisfare una mancanza, riparare ad un torto subito o meglio, ad una tragica sofferenza ormai superata (la figlia morta e l’assenza totale della verità sull’avvenimento). Motivo per il quale il suo cacciatore non è mai un cowboy portatore di profonda etica morale, ed epica americana disincantata e gioiosa (come lo erano i primi protagonisti del cinema western), quanto un cowboy ormai stanco che, uccide perché deve farlo, malinconico e riflessivo (Sheridan gli affida infatti più momenti di pianto: basti pensare al dialogo tra lui ed un amico indiano sull’elaborazione del lutto e sull’accettazione del dolore, ma anche quello tra lui e l’agente FBI a proposito della figlia morta). Si tratta di un personaggio moralmente indefinito, non è un eroe (uccide senza remore), ma nemmeno un antieroe (poiché Sheridan ce lo mostra come un buon padre di famiglia che ha sofferto e che ha superato e ancora lotta per superare quel dolore). Un cowboy da western crepuscolare, come lo erano il William Munny (Clint Eastwood) degli Spietati o caso ancora più simile Shane (Alan Ladd) del Cavaliere della valle solitaria. Ritengo molto interessante il parallelismo tra Wind River come western moderno e Wind River come western crepuscolare, perché quest’ultimo racconta il lato oscuro dell’America e del mito della frontiera. In cui l’America mostra il suo vero volto di potenza imperiale e capitalista. Mentre il Western moderno, si limita a tra postare quell’insieme di logiche e canoni nel mondo attuale. Basti pensare a: Cold in july; Go With Me; Red ecc. Quello mostrato da Sheridan è un territorio di confine segnato da desolazione, violenza, mancanza di regole, oscurità (morale e non) e di natura letale, quindi decisamente più legato ad un’idea di ambientazione e narrazione crepuscolare. Ricorrenti i dialoghi e le spiegazioni a proposito delle temperature quasi glaciali, delle corse a piedi nudi in queste condizioni e dunque delle mortali conseguenze. Luoghi e natura ricoperti di una neve perenne e fintamente accogliente che, in realtà nascondono svariati pericoli, da predatori animali a predatori umani. Ecco dunque il secondo discorso che Sheridan vuole fare con questo suo film: Il legame tra gli uomini, le bestie ed il luogo in cui sono relegati. La parte migliore di questo ottimo film infatti si concretizza ogni qualvolta i personaggi devono venire a patti con la dura legge del posto, portandoli talvolta a regressioni comportamentali non indifferenti. Sheridan sfrutta dunque questo pretesto per spiegare che se sposti gli esseri umani dalla città alla montagna selvaggia, questi ultimi tornano ad essere bestie, e se vivi tra le bestie occorre una morale di ferro, quella di cui Cory sembra essere uno dei pochi portati “sani” rimasti. All’interno di questo discorso, ovvero legame tra uomo e bestia, è rintracciabile quella che è la scena più dura e cruda dell’intero film. Un flashback di sorprendente potenza e violenza che arriva a tre quarti della durata, in cui ci viene svelato quello che fin dall’inizio (o quasi) era facilmente intuibile. Uomini che relegati in ambienti desolati e privi di svaghi giungono ad una regressione animale, la cui conseguenza principale non può che essere la violenza. Altri elementi molto interessanti di questo film che sono principalmente rintracciabili in contesto western sono: La grande importanza delle tracce (ricorrenti i discorsi su tracce animali, umane, di mezzi ecc), dinamiche legate alla tormenta in arrivo o più generalmente alle condizioni atmosferiche (le piogge fortemente evocative di Open Range, piuttosto che le abbondanti nevicate di due film profondamente legati: Il grande silenzio e The Hateful Eight). In conclusione, Wind River di Taylor Sheridan si dimostra un film sorprendentemente duro, potente, evocativo e colmo di grandi momenti di cinema (lo stallo alla messicana, il dialogo sull’elaborazione del lutto). Ci sono infatti al suo interno alcuni scambi di battute, interni a sequenze o scene di riflessione e silenzio in grado di lasciare realmente il segno nella memoria dello spettatore. Taylor Sheridan alla sua seconda regia dimostra ottime doti, nonostante in più di un momento ci si rende conto della superiorità dello script in quanto a precisione ed impeccabilità, rispetto alla sua resa filmica. Singolari alcune scelte puramente registiche tra cui l’apertura del film, in cui seguiamo un corpo femminile che nella disperazione fugge a piedi nudi correndo nella neve. Sheridan gira questa scena tragica e per certi versi spaventosa, attraverso frenetici movimenti di macchina a mano, quasi come se qualcuno o qualcosa si trovi alle spalle della donna in fuga. Avviene praticamente lo stesso nella scena in cui Cory trova per la prima volta ed in solitaria il cadavere congelato tra le distese di neve, in un giro di ricognizione in motoslitta (Sheridan queste scene più specificatamente action o di movimento le gira particolarmente bene). Il film mantiene ottime dosi di tensione ed intrattenimento, pur svelando molto poco e prendendosi tutto il tempo necessario per farlo. Raccontando di una realtà western moderna, radicata tra i confini indiani e quelli popolati dai “bianchi”, mostrando amicizie possibili tra queste due etnie. La figura del cacciatore è infatti più importante di quanto possa sembrare. Così come la figura del padre indiano in lutto e la potente e necessaria figura femminile (l’agente FBI). Proprio perché Cory è uno di quei bianchi che si è legato agli indiani, ne ha sposato una donna, con la quale ha avuto un figlio (proprio nella scena iniziale il figlio dirà al padre: sembravo proprio un cowboy, ed il padre correggendolo: no figliolo, sembravi proprio un Arapaho) ed ha stretto profonde amicizie con anziani e coetanei, tra cui il padre della vittima. I due hanno nella chiusa finale hanno un dialogo molto bello sull’accettazione degli errori dei figli, sull’importanza del perdono e dei legami famigliari. Fortemente suggestiva la colonna sonora di Nick Cave e Warren Ellis che si sposa perfettamente sia alla narrazione, sia alle interpretazioni degli attori. Così come la malinconica e dolente ballata country/rock finale: Feather di William Wild. “E da quale distanza si può correre a piedi nudi fino a qui?” “Questo io non lo so. Come misuri la volontà di sopravvivere? Soprattutto in queste condizioni..”
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