Ghost in the shell (Id; 2017) di Rupert Sanders – Film Recuperati in Home Video
- Eugenio Grenna
- 1 mar 2018
- Tempo di lettura: 8 min

“Tutti quelli intorno a me si sentono connessi a qualcosa… a qualcosa a cui io non sono connessa.” Una frase di Kusanagi (Scarlett Johansson) LA SINOSSI: Il Maggiore è un essere unico nella sua specie, il prototipo di quello che molti potrebbero diventare in futuro, e un’arma potentissima. Recuperato da un terribile incidente, il corpo biologico del Maggiore è stato sostituto con uno interamente artificiale, ma il ghost, cioè l’anima, è rimasta la sua. Da qualche parte, la parte più importante, il Maggiore è ancora umana, anche se (e proprio perché) la sua natura le pone dei dubbi che la tormentano. Li sfrutta Kuze, un misterioso terrorista, che la Section 9, capitanata dal Maggiore e gestita dalla Hanka Robotics ha l’ordine di trovare ed eliminare.
Discutere, o al contrario celebrare, il grado di somiglianza tra “figlio” e “madre”, si tratti della scelta di cast di Scarlett Johansson o del film di Rupert Sanders rispetto al manga di Masamune Shiro, ci sembra un esercizio non fondamentale, che sposta il fuoco altrove rispetto al film in sé, alla sua singolarità o, per restare in tema, alla sua identità.
IL COMMENTO: C’è un motivo per il quale Ghost in the Shell (assieme ad Akira) è considerato l’esponente più rappresentativo di una certa era dell’anime nipponico, nonchè di un modo di trattare i temi della fantascienza animistica, ed è la maniera in cui lo stile narrativo giapponese (dotato di tanti pregi quanto di difetti) lasci in quei film ampio margine di interpretazione, quanto ami suggerire e non spiegare. Ingarbugliati, spesso poco chiari e certamente più interessati all’impianto visivo mostruoso che mettono in piedi piuttosto che alla chiarezza narrativa, quei due film sono due delle punte massime di un cinema misterioso che evoca più che narrare. Ghost in the Shell versione statunitense fa l’esatto contrario: non evoca nulla e spiega tutto, fin dall’inizio e in ogni scena. A partire da quale sia la natura della protagonista, spiegata subito, fino alle varie situazioni in cui i personaggi si assicurano sempre di esprimere a voce i pro e i contro di ogni possibile scelta che stanno per prendere, il film di Rupert Sanders sembra temere tantissimo proprio ciò che aveva fatto la fortuna dell’anime del 1995: il mistero. La sua versione è il trionfo della chiarezza. Non ci sono dubbi, non ci sono domande che non ricevano risposte e addirittura alle volte le risposte arrivano prima delle domande stesse. Spogliato delle sue componenti più evocative Ghost in the Shell rimane nudo con una trama che non appartiene all’anime (da cui sono prese alcune scene cardinali, tutto il design della città e dei personaggi principali oltre che qualche dialogo) e ogni elemento altrove fascinoso qui sembra mostrare i propri limiti. Il Maggiore, primo robot con cervello umano (e quindi spirito che in maniera didascalica viene proprio chiamato “ghost”), è arruolato in forza alla sezione Sicurezza Pubblica 9, una squadra antiterrorismo cibernetico formata da umani, umani modificati e dal Maggiore che per l’appunto è “puro”. Li capitana “Beat” Takeshi Kitano, presenza magnifica, le cui scene personali omaggiano tantissimo il cinema dai tempi e ritmi fuori dalla grazia di Dio che Kitano ha girato negli anni ‘90. Sono quelle di certo le parti migliori del film. Il film fa un lavoro di creazione del futuro molto molto buono Quasi tutti gli abitanti di questo futuro sono “aumentati” con componenti cibernetiche e chi non lo è se ne vanta (anche qui sottraendo quel fascino della speculazione o della difficoltà di distinguere l’umano dal non umano). Tra tutti però il Maggiore è l’unico a soffrire di allucinazioni che capisce essere la propria memoria che tenta di tornare a galla, c’è qualcosa che le nascondono, ricordi che le hanno messo e altri che le hanno cancellato. Un misterioso hacker terrorista (il cui character design è a dir poco terribile) pare avere a che fare con questo. Il film fa un lavoro di creazione del futuro molto molto buono (la metropoli è piena di pozzanghere e acqua ovunque, è umida e grigia, vagamente retrofuturistica anche oltre il concetto di distopico), ma la storia è quello che delude di più. È evidente l’intento di cavalcare lo spirito filosofico che tutti associamo al titolo, ma il tentativo è talmente goffo e fondato su associare insieme scene potenti da diverse incarnazioni del manga di Masamune Shirow intervallate da dialoghi esplicativi, da sfociare spesso in una certa noia. Per fortuna arrivano le molte e buone scene d’azione a risvegliare l’interesse e spesso il 3D è usato con grande effetto. Tuttavia come mostra bene il confronto finale e la sua risoluzione (i medesimi dell’anime), anche una delle immagini più potenti e scarnificanti della versione animata è ampiamente sottoutilizzata, mostrata di fretta e senza l’enfasi che merita, come se si avesse paura di disturbare il pubblico mettendo in scena la forza di una volontà umana capace di travalicare un corpo disumano, spingerlo al massimo, gonfiarlo e sventrarlo fino a che non regge più la determinazione.
ANALISI:
Solograms “Sembrano reali ma anche effimeri” così John Dykstra ha giudicato gli splendidi giganti della pubblicità ribattezzati solograms nella versione live action di Ghost In The Shell firmata Rupert Sanders. Sono le nuove Sfingi, i nuovi Colossi di Rodi oppure è come se tutto il Tempio di Moloch di Cabiria prendesse vita e si appollaiasse indolente sulla sua Cartagine. Questi titani sono solo un effetto e soprattutto… sono solo un enorme, in senso letterale, spot commerciale. Non abbiamo più bisogno di creare figure enormi che diano un senso di protezione alle nostre comunità o città (come era il Colosso di Rodi) e la geisha che prendeva una pillola Kyoryoku Wakamoto contro i bruciori di stomaco nel 1982 in Blade Runner nel 2017 può non essere più solo un’enorme immagine proiettata su un grattacielo ma una vera e propria forma umana 3d seduta su un palazzo. Questo mondo del futuro non ha più bisogno di divinità. Bastano le pubblicità. Il 69enne guru dei vfx Dykstra, chiamato da Sanders per un ultimo tocco di saggezza dopo che la Weta di Sir Richard Taylor aveva fatto il più dell’effettistica del suo enorme film da 110 milioni di dollari di budget girato in Nuova Zelanda e fortemente ispirato all’anime del 1995 firmato Mamoru Oshii, è arrivato a concentrarsi soprattutto sui solograms, voluti con forza dal regista di Biancaneve E Il Cacciatore. Oggi che l’ingegneristica dell’effettistica, dice il californiano di Long Beach che cambiò la Storia del Cinema con il suo lavoro in Guerre Stellari, è stata sostituita dall’informatica, il creatore di effetti speciali deve più pensare al significato di un effetto piuttosto che alla sua effettiva difficoltà di realizzazione (oggi pari a zero, almeno all’interno di una produzione come quella di Ghost In The Shell). Lo abbiamo percepito anche noi il pensiero dietro i solograms. È un effetto così bello da diventare parte integrante di questa nuova New Port City dove le enormi figure in 3d è come se vegliassero sulle nostre piccole vite dominandoci con distacco mentre il Maggiore Mira Killian (Scarlett Johansson) della Sezione 9 corre di qua e di là per cercare di capire chi si possa nascondere dietro il terrorista Kuze.
Da Motoko Kusanagi a Mira Killian Le hanno dato un nuovo corpo, una nuova identità e una nuova ragione di essere. Ma Mira, un tempo, era un antagonista sociale proprio come quel Kuze che se ne va in giro vestito come l’Imperatore di Guerre Stellari. Il nuovo Ghost In The Shell degli americani (ma è coinvolto anche Mitsuhisa Ishikawa, tra i produttori del cartoon di Oshii) punta molto sul classico arco narrativo dell’eroe che scopre di essere stato manipolato e deve trovare l’innocenza perduta ribellandosi a chi l’ha voluto “angelo della morte” (“Lei è un’arma e il futuro della mia azienda” dirà un cattivissimo CEO). Quindi Blade Runner (i nostri ricordi sono artificiali?) e anche un pizzico di Jason Bourne (sei stato programmato per uccidere) e RoboCop (è tutta colpa delle corporation stronze). Una volta che Mira scopre di avere un passato in cui era una ragazzina giapponese antagonista politica come il povero pseudoterrorista Kuze di Michael Pitt (un dolcissimo Julian Assange sventrato e vocalmente zoppicante)… la fusione non porterà alla bimba finale comprata al mercato nero da Batou nel cartoon del 1995 in grado di dominare la città dall’alto (ma di una collina e non più di un grattacielo) e pronta a mettersi in proprio lasciando Sezione 9 (come nei manga originali di Masamune Shirow). L’idea è meno ambigua nel film di Sanders. Nell’originale gli involucri-shell che si fondevano erano quelli di due sventolone più robot che umane, e dai seni portentosi, con la voglia di rivendicare un terzo sesso per percorsi poi solitari. Qui invece le identità che si fondono sono quelle di un ragazzo e una ragazza che sognavano la rivoluzione quando erano dei massimalisti organismi del ‘900, ora diventati macchine utilizzate dalla propaganda. L’idea finale di Mira e Kuze è più quella di rivendicare un’autonomia morale della Sezione 9 guidata da Takeshi Kitano come se il suo Capo Aramaki fosse il corrispettivo esatto di Nick Fury (il quale diventa antigovernativo pure lui alla fine di Captain America: The Winter Soldier). Per continuare nel franchise non bisogna negare Sezione 9 (sono gli Avengers) ma permetterle di affrancarsi dai doppi giochi della Hanka Robotics.
Ghost In Translation La città è bellissima. Adoriamo i solograms. Poi anche i vicoli, i ristoranti, i bordelli (che bella la scena in cui Mira vuole toccare una prostituta al 100% umana), gli uffici, la geisha-bot assassina, l’escort-bot, gli olo-cubi disconnessi e poi l’immancabile blindo-ragno del finale. È un universo credibile. Bellissima l’idea di far mettere gli occhi-bottoni a Batou (così vediamo ciò che è già avvenuto nel cartoon di Oshii) durante il film in modo tale da renderci ancora più consapevoli della nonchalance con cui in questo futuro ci si possa costantemente modificare roboticamente (il ritocchino di oggi domani diventerà: “Lo vuoi un upgrade?”). Questo Batou di Sanders ottimamente interpretato dal danese Pilou Asbæk perde gli occhi organici ma non è affatto disperato perché con quelli nuovi può forse penetrare sotto le camicette delle donne (lui è un cyberpunk etero). Juliette Binoche è lo scienziato sensibile europeo che compierà una scelta morale rientrando in connessione con le sue emozioni di un tempo (tutto il film ha dunque l’idea del recupero dei nostri idealismi di gioventù). Takeshi Kitano è il capo giapponese che sembra disinteressato a tutto e invece è un pilastro etico. Il casting di questi due attori è una bella selezione di icone di Europa e Oriente. Complimenti. E poi viene la pietra dello scandalo di nome Scarlett. La star trentaduenne è già stata alieno bruno (Under The Skin; qui si riprende il colore dei capelli adottando un taglio meno arruffato), intelligenza artificiale in grado di far venire Joaquin Phoenix con la sola voce (Lei), ragazzotta yankee cerebralmente potenziata (Lucy) e super spia russa (Avengers). Chissà come mai hanno scelto, dentro il racconto, la sua faccia per ricostruire la rivoluzionaria Motoko Kusanagi come Maggiore al 95% cyborg. Ragioni estetiche? Ovviamente la polemica sul whitewashing del casting non ha alcun senso visto che l’anime del 1995 era pieno zeppo di elementi occidentali sia nei lineamenti del Maggiore (era proprio orientale? siete sicuri?) che nel modo di vestire ed etnia di tanti personaggi di contorno e poi… che senso ha parlare di fedeltà etnica della protagonista dentro una storia che esalta proprio l’opposto ovvero l’importanza della nostra coscienza e anima (ghost) rispetto all’involucro (shell)?
Conclusioni Come sempre più spesso capita in questi anni di cinema che recupera e ricicla, tutto dipende da che posizione avevate riguardo questo remake. Se eravate estremamente scettici e convinti che sarebbe stato un disastro, allora apprezzerete il buon gusto di realizzare un prodotto rispettoso dell’anime di Oshii ma con la personalità di assumere certe posizioni e fare scelte diverse (la trama è nettamente più comprensibile qui rispetto al cartoon ostico di Oshii). Se invece pensavate che sarebbe stato un nuovo caposaldo della fantascienza cyberpunk pure originale, allora sentirete la mancanza dell’anima più originale dell’anime di Oshii dai manga di Masamune Shirow perché il film di Sanders è sicuramente più transformers che transgender. Nel momento della franchisemania, in ultima analisi, una saga prende definitivamente shell, e anche ghost, al secondo o terzo episodio per non addirittura acquisire una sua compiuta identità al sesto capitolo (Resident Evil). Gli incassi Usa potrebbero stentare ma sarà importante l’Asia per capire se e come vedremo ancora in azione il nuovo Maggiore dentro la nuova Sezione 9.
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