Blade Runner (Id; 1982) di Ridley Scott – Blade Runner 2049 (Id; 2017) di Denis Villeneuve
- Eugenio Grenna
- 1 mar 2018
- Tempo di lettura: 19 min


BLADE RUNNER – 1982 – RIDLEY SCOTT
LA SINOSSI: Nella Los Angeles del futuro, Deckard è un cacciatore di replicanti o lavori in pelle come li chiama con disprezzo il suo capo. Vorrebbe ritirarsi dal suo lavoro per la blade runner, ma gli affidano un ultimo compito, quattro modelli nexus-6 fuggiti dalle colonie spaziali e arrivati sulla Terra, con pochi giorni di vita rimasti prima della loro scadenza, che scatta dopo quattro anni di esistenza. Deckard sa riconoscere i replicanti grazie al test Voight-Kampff, che valuta le reazioni emotive di fronte a domande provocatorie, e il loro creatore, il capo della Tyrell corporation, lo mette alla prova con una replicante speciale, che non sa di esserlo, Rachel. Lei, sconvolta dalla verità, cercherà Deckard, che decide di proteggerla e non “ritirarla”, perché sogna che al termine della sua missione potrà vivere in pace con lei.
ANALISI E COMMENTO: Oggi più che mai sono naturalmente portato a domandarmi quale sia l’effettiva caratura di un filmmaker come Ridley Scott. Mentre suo fratello, il compianto Tony, è paradossalmente riuscito a mantenere una propria cifra stilistica, estetica, che con alterne fortune economiche è stata riadattata di volta in volta al machismo reganiano di un Top Gun, alla logorrea tarantiniana di un True Romance, alle serrate necessità narrative di thriller ispirati a storie vere o meno come Domino, Unstoppable o Man on Fire, Ridley ha sempre spaziato fra le vette della genialità artistico-commerciale e degli scivoloni avvolti da quell’inconfondibile patina e luminosità da brochure pubblicitaria. Il mio dubbio è probabilmente destinato a rimanere tale. Quello che non posso in alcun modo mettere in discussione è come Ridley Scott sia riuscito a tirare fuori dal cilindro a tre capolavori totali come Blade Runner, Alien e I Duellanti. Blade Runner, tratto dal romanzo breve del vate della fantascienza Philip Kindred Dick intitolato Do Androids Dream of Electric Sheep? (scritto nel 1966 e pubblicato nel 1968) e riadattato con modifiche che ancora oggi fanno discutere gli esegeti dello scrittore di Chicago, ha seguito un percorso ben conosciuto dagli amanti della settima arte, salendo al rango di cult inossidabile solo diverso tempo il debutto nelle sale avvenuto trent’anni fa. Col senno di poi, non è del tutto illogico capire perché le platee cinematografiche del 1982 abbiano faticato a digerire la fantascienza davvero ben poco conciliante di Blade Runner decretando, invece, il successo di un altro capolavoro indiscusso come E.T. – L’Extra-Terrestre di Steven Spielberg. A prescindere da quello che Blade Runner riesce a concentrare e condensare al suo interno – i tratti riconoscibili del film noir anni’40 e le umane paure legate alla fine dell’esistenza terrena, gli echi cartesiani e il senso di opprimente solitudine di un quadro di Edward Hopper, i fumetti di Moebius e la paranoia originata dall’orwelliano controllo totale della società da parte di gigantesche corporazioni – si è trattato di un’effettiva anticipazione dei “tempi oscuri e incerti” che ci troviamo a vivere tutti noi sulla nostra pelle oggigiorno. Nel 1982 le persone non erano, forse, pronte a interfacciarsi con un’opera che permetteva di dare un’occhiata in un abisso senza fine. Ci vuole davvero del tempo per essere capaci di metabolizzare un’opera d’arte che dice al pubblico “guardate che malgrado tutto l’edonismo spinto di quest’inizio di decennio, è questa la direzione che stiamo per intraprendere”. Un monito che, ormai, risuona nelle nostre orecchie come il “te lo avevo detto” detto da un genitore al proprio bambino dopo che questo si è beccato un malanno per non essersi coperto bene mentre stava in cortile a giocare. Blade Runner è un film che non ha paura di affidare a ogni sequenza, se non a ogni inquadratura, un significato ben preciso, una chiave di lettura destinata a far parlare di sé nei secoli dei secoli. Basterebbe già il solo incipit in cui il paesaggio cyberpunk di Los Angeles e la piramide della Tyrell Corporation si riflettono in un occhio, svelando subito il tema principale della storia. Ispirandosi all’iconografia egizia dell’Occhio della Provvidenza (l’occhio che, incastonato nel tronco di una piramide, tutto vede), dell’occhio del creatore, possiamo già leggere il tutto come una vigorosa allegoria dell’importanza della visione, un legame ribadito a cadenza e intervalli di tempo regolari durante il lungometraggio. Il test Voight-Kampff, utilizzato per stanare i replicanti, ricerca delle reazioni empatiche, attraverso un esame oculare. Questi organismi sintetici, questi “lavori in pelle” si aggrappano al rapporto che lega la memoria e la visione fatto dagli umanoidi; Leon e la sua foto, il rigetto di Rachel che non può ammettere di essere un prodotto della Tyrell – lei ricorda di aver vissuto! -, l’indimenticabile monologo di Roy Batty nel finale del film (“Io ne ho viste cose”). Ma nel raccontare questa caccia che ricontestualizza in un futuro tetro e piovoso alcune figure archetipiche di tanti noir che hanno contribuito a edificare il mito di Hollywood – la femme fatale e l’uomo cinico e disilluso destinati, inevitabilmente, ad amarsi – vengono anche gettate le basi per una profonda riflessione fra trascendente e immanente, fra Creatore e creatura. I Nexus sono destinati a un rapidissimo invecchiamento, ferale “regalo” del loro Dio e artefice, il Dr. Tyrell e proprio per questo aspirano a voler superare questo limite, per poter contiuare a vivere. Roy Batty segue dunque un percorso che lo porta ad assumere i contorni iniziali di un Lucifero, di un portatore di luce in un’esistenza resa buia dai limiti imposti dal padre, per poi sacrificarsi nel finale salvando la vita a Deckard. Un Cristo artificiale che nella perenne pioggia di una Los Angeles schiacciata dall’eccessiva industrializzazione e inquinamento e, più genericamente, specchio di un’America che pareva aver già perso di fronte all’avanzata del “pericolo giallo” – nel 1982 erano i giapponesi a incutere timore, oggi è la Cina – offriva un barlume di speranza in una pellicola arrivata troppo in anticipo sui tempi. All’origine c’è il romanzo del 1968 di Philip Kindred Dick “Ma gli androidi sognano le pecore elettriche?” capolavoro di un autore in vita bistrattato e poco considerato, che proprio grazie al film, e subito dopo la sua morte nel 1982 (fece appena in tempo a vederne una copia di lavorazione), verrà rivalutato dalla critica e scoperto dal grande pubblico, diventando a tutti gli effetti uno degli scrittori più visionari e importanti della letteratura, non solo fantascientifica, del secolo scorso. La potenzialità cinematografica del romanzo di Dick interessa fin da subito un regista come Martin Scorsese che ne opziona per primo i diritti. Ma i tempi non sono ancora maturi. Storia travagliata, quella di “Blade Runner”, che vede molte persone interessarsi alla realizzazione del progetto. Il primo “autore” che inizia a far prendere una forma concreta al film, alla fine degli anni 70, è Hampton Fancher, che rileva i diritti del romanzo e scrive la prima sceneggiatura di quello che sarà “Blade Runner” di Ridley Scott. Hampton si confronta direttamente molte volte con Dick durante la stesura, che fornisce consigli e suggerimenti, mostrando un interesse diretto a quello che sarà l’opera filmica (e si può dire a ragione che rimane l’unico film veramente pervaso da uno spirito dickiano tra tutti quelli che, dopo la morte dello scrittore, sono tratti dai suoi romanzi e racconti). La sceneggiatura di Hampton interessa al produttore Michael Deeley (lo stesso de “Il cacciatore” di Michael Cimino) che si mette alla ricerca del regista e del cast adatti. In sintesi, dopo varie opzioni e riunioni, la spunta Ridley Scott che è ingaggiato soprattutto grazie al suo “Alien” di qualche anno prima che lo ha rivelato come capace di affrontare una messa in scena complessa e l’utilizzo della luce e delle inquadrature apprese nel girare spot pubblicitari. Poi si aggiungono Harrison Ford nella parte del detective Rick Deckard “cacciatore di androidi” e Rutger Hauer come l’antagonista Roy Batty; David Peoples che rende la sceneggiatura di Hampton più decisa e caratterizzata e capace di soddisfare la idee di Scott; così come Syd Mead, scenografo, disegnatore e artista multimediale che dona l’atmosfera “heavy metal” e “cyberpunk” al mondo fantascientifico di “Blade Runner”. Quindi, il risultato finale è un’opera collettiva dove un po’ tutti quelli che vi prendono parte contribuiscono a delineare la storia, l’ambientazione e le psicologie dei vari personaggi di quel grande affresco futuristico che diventa “Blade Runner”. In tutto il film è messo in scena il confronto tra esterno e interno. Il pieno caotico delle strade tracima nel disordine degli appartamenti e dei locali. Deckard si muove in un mondo chiuso, claustrofobico, senza via d’uscita: la stazione di polizia, dove è convocato subito dopo l’omicidio del collega da parte del replicante Leon; il club, dove viene individuata l’altra replicante Zhora che Deckard uccide; il palazzo fatiscente dove vive il genetista J.F. Sebastian (e scena dello scontro finale tra Deckard e Batty); lo stesso appartamento di Rick. Sono tutti luoghi dove il disordine e la decadenza regna e impregna lo sguardo dello spettatore. Una rappresentazione di città non più futuristica, che interpreta la geografia urbanistica delle ormai megalopoli contemporanee come Città del Messico, New York, Hong Kong, Shangai, Tokyo, Mumbai, tanto per citarne alcune. Unica eccezione a tutto questo rimane l’interno della Tyrrell Corporation (la multinazionale produttrice dei replicanti) il cui edificio totemico svetta nel tessuto urbanistico futuro: sia l’ufficio di Tyrrell sia il suo appartamento sono luoghi in cui regna un certo ordine e ci sono ampi spazio vuoti, metafora del privilegio del potere. In questo caso “Blade Runner” riesce, come pochi, a descrivere un mondo lontano e nello stesso tempo vicino al nostro presente, ma anche a farcelo sentire, toccare. Le immagini dei corpi, delle strade, dei palazzi sembrano quasi che abbiano un respiro proprio e che trasportino lo spettatore all’interno della realtà filmica. Ridley Scott sfrutta al massimo tutto il reparto tecnico-visuale grazie alle indubbie qualità di scenografo e alla capacità di dirigere la complessa organizzazione della messa in scena di tutti gli elementi profilmici. Inoltre, l’utilizzo dell’effetto flou (ripreso dalla sua esperienza pubblicitaria e poi, dopo di lui, abusato nel cinema degli anni 80) rende granulosa e pastosa l’immagine ed è funzionale per la messa in quadro. L’uso delle luci e delle ombre, della continua pioggia e di un senso del bagnato rendono materiche le immagini (e Scott non riuscirà mai più a riprodurre con la stessa potenza nei suoi futuri film) e connotano una moderna caratterizzazione noir alle atmosfere visive in “Blade Runner”, rendendo il film unico e imitato negli anni a seguire. Tra i tanti temi di un film così stratificato nella componente visiva e narrativa, ne mettiamo in evidenza due che appaiono ancora oggi molto contemporanei e correlati tra loro: la (in)capacità di vedere e l’importanza del ricordo. Fin dalle sequenze iniziali in campi lunghi e lunghissimi della megalopoli ci sono dettagli di un occhio riempito delle immagini della città, specchio metafisico in cui riflettere la realtà della visione. E’ quello di Leon che viene sottoposto al test Voigt-Kampff, effettuato con una sorta di computer con visore che registra le variazioni della pupilla, scatenate da una serie di domande con lo scopo di provocare una reazione emotiva incontrollata. Il test e la macchina servono per scoprire se il soggetto è un replicante, e già qui abbiamo il primo grande esempio dell’importanza della vista e dell’occhio come entrata privilegiata all’anima umana. La macchina stessa è una cinepresa emozionale, perché solo le emozioni definiscono l’umanità. Ma il cortocircuito scopico tra chi osserva e chi è osservato s’intravede fin da subito. La visione è incerta e la definizione delle emozioni è abdicata dall’uomo. Del resto, Leon e gli altri replicanti reagiscono sempre in modo violento e la violenza diventa una reazione emotiva per l’affermazione di se stessi in un mondo impaurito e ostile. Gli occhi brillano di vita propria in tutti i replicanti (umani e animali). Anche quelli di Rachel – l’assistente di Tyrrell – che ignora di essere una replicante. Deckard la scopre grazie al suo intuito durante un lungo e difficile test Voigt-Kampff nell’ufficio di Tyrrell. Quindi, alla fine, è la visione personale di Deckard attraverso la macchina Voigt-Kampff, del regista con la macchina da presa, dello spettatore tramite lo schermo del cinema che rendono vivo o meno ciò che si guarda. La realtà esiste perché è osservata attraverso lo sguardo dell’occhio (dis)umano. I Nexus 6 tornano sulla Terra perché hanno un limite massimo di quattro anni di vita, scritto nel loro codice genetico, e come tutti gli esseri viventi vogliono vivere di più, lottano perché la vita non sia così breve rispetto all’eternità del tempo. Il loro è un percorso che li porta fino al demiurgo per eccellenza, quel Tyrrell, genio della finanza e della genetica, creatore del cervello dei replicanti, della loro mente, della loro “anima”. “Più umano dell’umano” è il motto della Tyrrell Corporation e con i Nexus 6 sembra che siano riusciti nel loro scopo. Anche Rachel è un esperimento: una replicante che crede di essere umana. Come i molti umani del film, inconsapevoli di essere dei replicanti di un’umanità ormai in preda a una cecità ignorante del mondo. In questo caso la sequenza all’interno del laboratorio criogenico, dove Chew costruisce gli occhi dei Nexus 6, è una di quelle più significative. Batty e Leon cercano risposte per “allungare” la propria vita, per prolungare il tempo della visione: i bulbi sono raccolti e sparsi sulle spalle di uno spaventato Chew in una moltiplicazione fisica dello strumento di visione, ma che risultano oggetti inanimati e inerti, incapaci di vedere realmente. Così per gli umani gli occhi non bastano più per vedere la realtà e hanno bisogno di replicarli o potenziarli: Deckard usa il visore della Voigt-Kampff per scoprire i replicanti e di un altro computer per carpire dei dettagli in una fotografia, recuperata nell’appartamento dei replicanti; Chew ha in testa una cuffia con diverse lenti; lo stesso Tyrrell indossa degli occhiali con spesse lenti bifocali (una vista biforcuta, palesemente artificiosa). Invece i replicanti osservano il mondo con il loro sguardo triste e puro, alla ricerca di una verità negata. La cecità degli uomini viene confermata da come Roy Batty uccide Chew, J.F. Sebastian e lo stesso Tyrrell: schiacciando gli occhi con le dita. In particolare, l’incontro tra Tyrrell e Batty è l’espressione edipica di un confronto tra padre e figlio, tra creatore e creatura, tra demiurgo e opera metafisica, dove la punizione è la morte per chi è incapace di vedere, di ricordare, di provare emozioni. Tutto ciò riconfermato dall’ultima straziante e famosa sequenza, nel monologo finale di Roy Batty prima di morire (“Ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare…”) davanti a un Deckard stupito, dove la vita è data innanzi tutto da ciò che si è visto e si ricorda. Se la visione del mondo crea i ricordi, le loro tracce possono essere trasformate in fotografie: per questo i replicanti sono attaccati alle loro foto, così come ai ricordi, perché esse sono simbolo del vissuto, della loro umanità. E di foto è pieno anche l’appartamento di Deckard; le foto le porge Rachel a Deckard come prova e materia iconica del proprio vissuto. Attraverso i ricordi, Deckard accompagna lo spettatore nella detection umanistica, nel ritrovamento e poi nello scontro con i vari replicanti. I ricordi dunque sono componenti della visione vissuta dagli uomini e dai replicanti. Non ha nessuna importanza che siano fittizi, costruiti, inventati o reali: prendono forma per chi li vive nel momento che si palesano allo sguardo, attraverso le immagini fotografiche, gli occhi degli uomini o le immagini in movimento del Cinema. Il concetto di replicante viene introdotto per la prima volta in “Blade Runner”: essi non sono semplici androidi, macchine pensanti, dei cloni, ma vere e proprie “repliche” dell’uomo, sintesi delle migliori virtù fisiche e psichiche. I replicanti sono un’evoluzione dell’individuo ormai malato e morente. Chew è vecchio e lento; J.F. Sebastian è un giovane affetto da progeria che lo fa invecchiare precocemente; Tyrrell è accecato dalla sua onnipotenza e superato dalle sue stesse creature; il poliziotto Gaff è uno storpio che si sorregge con un bastone; lo stesso Deckard è sconfitto e stanco della vita, un ex in tutto (poliziotto, killer, amante, uomo). Nella sequenza finale Batty, oltre a salvare la vita a Deckard (invece di ucciderlo), gli trasmette la volontà di vivere, così come Rachel riaccende l’emozione dell’innamoramento. Deckard diventa un replicante dei replicanti: lo rivitalizzano, donandogli sentimenti e prospettive che aveva perso e dimenticato. Ormai la fiamma dell’umanità brucia nelle sue repliche e non più nella forma originale. Il tema della replica si può traslare all’oggetto filmico “Blade Runner” e le sue tre principali versioni. La prima di lavorazione, proiettata in test preview in alcune sale cinematografiche, non ha un riscontro di pubblico positivo. Al contrario delle notizie circolate, è lo stesso Scott a intervenire inserendo la voce over di Deckard, che accompagna la diegesi narrativa, e l’happy ending nella copia theatrical distribuita nel 1982. Il “Director’s Cut”, distribuito nel 1992, e spacciata come la “vera” versione del film, è invece causata da una erronea proiezione della versione di preview che questa volta però ha grande successo. Scott vede l’occasione di sfruttare economicamente il fatto e di inserire altre argomentazioni di discussione intorno a “Blade Runner”. Riprende il girato originale e monta il film in modo leggermente diverso: elimina il finale (che è un “prestito” da alcune sequenze prese dallo “Shining” di Stanley Kubrick) e la voce over di Harrison Ford (che invece contribuisce alla magia narrativa e al sense of noir della pellicola); dilata alcune sequenze di azione e inserisce il famoso sogno dell’unicorno fatto da Deckard. L’intento di Scott è di rendere esplicita l’idea che Deckard sia egli stesso un replicante, confermato dall’unicorno di carta lasciato da Gaff davanti alla porta dell’appartamento del detective. Comunque alla fine, “Blade Runner”, sotto qualsiasi forma lo si veda, entra a buon diritto nella storia del Cinema per la capacità di rappresentare la potenza immaginifica della Settima Arte. Dove i sogni possono diventare realtà. Una realtà composta di immagini, ricordi, suoni – la memorabile colonna sonora di Vangelis – ed emozioni per ogni spettatore.
BLADE RUNNER 2049 – 2017 – DENIS VILLENEUVE LA SINOSSI: L’agente K è un blade runner della polizia di Los Angeles, nell’anno 2049. Sono passati trent’anni da quando Deckart faceva il suo lavoro. I replicanti della Tyrell sono stati messi fuori legge, ma poi è arrivato Niander Wallace e ha convinto il mondo con nuovi “lavori in pelle”: perfetti, senza limiti di longevità e soprattutto obbedienti. K è sulle tracce di un vecchio Nexus quando scopre qualcosa che potrebbe cambiare tutte le conoscenze finora acquisite sui replicanti, e dunque cambiare il mondo. Per esserne certo, però, dovrà andare fino in fondo. Come in ogni noir che si rispetti dovrà, ad un certo punto, consegnare pistola e distintivo e fare i conti da solo con il proprio passato.
ANALISI E COMMENTO: Lo diceva Roy Batty con le parole di Rutger Hauer ancora prima del gran monologo finale: “Se solo tu potessi vedere quello che io ho visto con i tuoi occhi…”. Vedere qualcosa ti cambia e non puoi più essere lo stesso, il principio su cui si basa il cinema. Lo dice anche Dave Bautista, replicante nascosto che il cacciatore Ryan Gosling scova all’inizio di Blade Runner 2049, che la maniera in cui il protagonista agisce non sarebbe tale “se tu avessi visto un miracolo”. Anche se gli occhi non sono così onnipresenti come nell’originale, a ogni modo quel che vedi ti cambia, mentre quel che ricordi determina ciò che sei. Il nuovo Blade Runner è innestato sui due assi principali su cui era incentrato l’essere umani nel mondo dei replicanti: “Veri ricordi uguale vere reazioni umane”. Anche qui la possibilità di ricordare qualcosa di vero discrimina chi è sintetico da chi non lo è. Blade Runner 2049 affida a quest’impianto la sua fedeltà ai temi dell’originale ma in realtà va a finire subito altrove, in un territorio che per fortuna è più vicino al cinema di Denis Villeneuve che all’imitazione di quello di Ridley Scott. Con il suo passo moderato e la pochissima fretta di arrivare al dunque, Blade Runner 2049 fa di tutto per somigliare all’originale, ne incorpora qualche sequenza, un pezzo di audio e ad un certo punto anche di più, eppure non lo fa per ritoccarne la mitologia, come Trainspotting 2, ma per accrescerla, per rendere ancora più importanti gli eventi passati. Quello tra gli accadimenti del 2019 e quelli del 2049 è una parte importante della storia ma è un rapporto che rimane in superficie, buono per le sinossi. La sostanza del film è molto diversa e ciò è il suo vero pregio: essere un film di fantascienza di Denis Villeneuve, magari non perfetto come Arrival, ma bello, serio e autonomo pur nei suoi legami con il precedente. Se quello del 1982 confondeva lo spettatore attraverso la densità di ogni immagine, lo stordiva e gli levava punti di riferimento riempiendo ogni inquadratura di elementi, questo è un film di vuoti. Se nell’originale ogni ambiente era illuminato in modo che non se ne distinguesse bene la conformazione e comunicasse un’idea claustrofobica anche attraverso le luci sempre mobili provenienti dall’esterno, qui tutto è più chiaro, sgombro, minimalista (anche le luci mobili, che pure ci sono, non creano caos ma anzi ordine), è più il futuro canonico per come lo immaginiamo di solito, messo in immagini da un Dio della fotografia come Roger Deakins (che inizia con il freno a mano tirato ma più avanza il film più si libera dalla museruola). Nella Los Angeles di quel mondo le cose sono peggiorate tra il 2019 e il 2049, la contaminazione con l’Asia ha lasciato il passo a quella con la Russia e Villeneuve è bravissimo a suggerirla senza spiegarla. Sarebbe bello se fosse riuscito a fare lo stesso con la trama, spiegata troppo spesso tramite monologhi implausibili, pronunciati guardando il vuoto (il più fastidioso dei quali è lasciato a Jared Leto, che parlando con la sua assistente dice per filo e per segno quali sono i suoi obiettivi e quali i problemi che deve superare). Denso di twist narrativi, ipotesi, possibili spoiler e rivelazioni, Blade Runner 2049 non è una storia piccola e noir di un uomo, qualche replicante e una donna tutti in cerca di vita dentro un mondo in cui è difficile amare e facile morire, è un’affresco imponente che riguarda tutto quel mondo e quel che gli può accadere. È un film moderno perché tutto, anche quel meccanismo dei ricordi innestati nei replicanti già noto dal precedente film, è sviscerato e approfondito nelle sue implicazioni, nelle sue cause e nei suoi effetti. È un film pieno di risposte in cui sembra che il mistero faccia gran fatica a ritagliarsi uno spazio, come è caratteristica del cinema moderno, ansioso di informazioni, dettagli e funzionamenti. Di tutta questa chiarezza molti registi avrebbero fatto l’uso peggiore, invece Villeneuve con il personaggio di Joi, l’assistente personale del protagonista (un’intelligenza artificiale che lui ha acquistato e che non si capisce mai se sia più o meno avanzata dei replicanti), dimostra non solo di avere delle idee proprie ma anche di saperle spiegare e comunicare con trovate visive originali. Con Joi e tutto quello che accade con lei, attraverso di lei e intorno a lei il film dimostra di essere in grado di creare momenti in cui ciò che accade non si spiega a parole, semplicemente avviene davanti a noi, e la maniera in cui lo vediamo avvenire ha la qualità attraente e respingente delle più grandi distopie, i sogni andati a male in cui percepiamo un po’ di romanticismo ma è così flebile che ci commuove. Il che basta e avanza a farne un film molto bello. Miracolo? “Perché non avete mai visto un miracolo” risponde così allo scetticismo verso il salto di qualità di una possibile interazione essere umano-replicante il Supper Morton di Dave Bautista al collega replicante più “crumiro” KD6-3.7, per i pochi amici Joe e per tutti gli altri solo K (Joseph K. era il protagonista de Il Processo di Kafka) interpretato da Ryan Gosling. Effettivamente lo avremmo voluto vedere anche noi questo miracolo lungo tutti i 163′ di Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve invece che ripercorrere correttamente ma blandamente le stesse tappe dell’originale del 1982 firmato Ridley Scott con la solita anaffettività e pacatezza visiva, però, tipica della contemporaneità rispetto al furore e sudore organico del cinema anni ’80 in cui tutto era più partecipato, umido e bagnato rispetto all’aridità solipsistica e secchezza estetica del presente. E invece, in attesa di esplorare se non addirittura vedere il miracolo per i prossimi episodi di Blade Runner 3 o 4 o 5 o 6, abbiamo appena visto una affettuosa ma scolastica replica del film del 1982 con grande attenzione alla sensibilità dei replicanti (ancora?), un’indagine poliziesca che sa anche di reportage giornalistico e/o collage di vita passata alla Quarto Potere di Orson Welles (del genio americano si riprende l’utilizzo di oggetti emblematici di un ricordo infantile e anche l’idea di Rapporto Confidenziale di vedere una persona molto citata nelle parole poi entrare in azione nella seconda parte; ci riferiamo a Deckard) con il preciso obiettivo di lucrare su un brand e rimescolare le carte tenendosi però il mazzo buono magari per la prossima mano. Che peccato visto che fuori campo, da qualche parte e già a partire dal 2021 ovvero due anni dopo il 2019 del primo film, nella drammaturgia dell’universo Blade Runner il tale Rick Deckard (forse uomo, forse replicante) e la tale Rachel (sicuramente replicante) avevano prodotto una nascita miracolosa come Giuseppe e Maria. Una nascita che avrebbe significato molto sia se il frutto era di umano & replicante sia se la prole fosse provenuta da un accoppiamento replicante & replicante. Ma tutto questo in Blade Runner 2049 di Villeneuve non diventa il centro e cuore del film. È solo un amo per “pescare” lo spettatore. Replicando Per ora nel film di Villeneuve accontentiamoci di ciò che abbiamo visto e rivisto incessantemente dal 1982 ad oggi con picchi negli ultimi anni rappresentati da Ex Machina di Garland o Lei di Jonze. I replicanti o androidi o robot (anche in Matrix era così prima che umiliassimo le macchine a tal punto da spingerle a una rivoluzione armata) sono in cerca di una sempre maggiore connessione con quelle creature nonché creatori così somiglianti a loro: noi. Ecco che dunque un blade runner replicante estremamente ligio al dovere (KD6-3.7) partirà per una missione per capire cosa è successo a quel tale Rick Deckard, scappato via con un’androide nel 2019 al termine di una vicenda legata a 4 modelli Nexus 6 da ritirare, senza che la sceneggiatura di Michael Green e Hampton Fancher (il secondo fu il primo sceneggiatore scartato da Scott per la versione più mondana creata da David Webb Peoples, incomprensibilmente non richiamato per questo sequel) ci faccia minimamente percepire il nervosismo di una rivoluzione politica in atto (c’è una cellula di androidi sediziosa? il figlio/figlia/gemelli partorito/i da Rick e Rachel sarebbe stato visto come un messia? Perché viene utilizzato il termine “miracolo”?). Vedremo solo ciò che abbiamo già visto: il rapporto tra KD6-3.7 e la sua segretaria/governante/possibile amante Joi (ma il film esce con le ossa rotte dal confronto con Lei di Jonze), il dubbio che il replicante possa rendersi conto di essere umano ribaltando il cruccio del primo film (come mai il modello Nexus 6 Roy Batty aveva consapevolezza del proprio corpo artificiale mentre questi nuovi modelli non sanno niente delle loro interiorità?), un’indagine che ci permetterà di esplorare alcuni luoghi non proprio indimenticabili di questo 2049 così più moscio a livello architettonico rispetto al 2019 (archivi, aziende, centrali di polizia, alberghi/casinò abbandonati, serre, appartamenti; tutto piuttosto insignificante) dove gli ologrammi 3d che ti ballano davanti agli occhi sono molto meno “cool” rispetto ai solograms appollaiati sui palazzi nella versione live action di Ghost In The Shell. Conclusioni Così lontano, così vicino, dunque, alla versione (dei produttori) del 1982. In teoria melodramma politico ma in pratica sonnolento poliziesco esistenzialista, non aiutato dalla presenza come suo eroe di passione & rivoluzione quell’attore quasi totalmente incapace di trasmettere idealismo romantico o anche solo… energia emotiva. Ci riferiamo ad Harrison Ford. Mentre Gosling è diligentemente catatonico per il 99% delle inquadrature (che brutto quel momento di emotività esposta in cui il suo Joe K. dà di matto per 15 secondi sembrando uno psicopatico qualunque), Ford è leggermente più pimpante ma solo perché sa che sarà protagonista del sequel di questo sequel e quindi si sfrega le mani visto che, se la strategia alla base di questo Blade Runner 2049 avrà successo, il buon Ford (76 anni a luglio del 2018 e ancora Indiana Jones nel 2020) terminerà la carriera in sella a due franchise mondiali dopo essersi levato dalle scatole, dopo anni e anni di tentativi infruttuosi, lo Han Solo di Star Wars. Abbiamo visto in questo film distintamente Harrison Ford. E Rick Deckard? Meno. Quel Rick che era fuggito in macchina con Rachel chiedendosi interiormente “quanto sarebbe durata” (sia lei che la loro storia d’amore: una delle battuti finali più belle e risonanti sella Storia Del Cinema), padre del “miracolo”, strumento di una rivoluzione che sa sempre di antipatia de-umanizzante come si deve fare oggi vedi Hunger Games (Rick fu costretto a lasciare la figlia immediatamente per non compromettere la causa politica ma non si capisce assolutamente perché; traduzione: oggi si deve sempre diffidare dei rivoluzionari). Deckard in questo film è un Ford in anonima t-shirt grigia (perché passare dal mitico trench + cravattina + camicia a questo look da americano qualsiasi in pensione?) che non riesce mai a pronunciare delle battute senza evitare di farci percepire quel leggero fastidio con cui lo fa, come se ci facesse la grande concessione di recitare per noi. Blade Runner 2049 soffre di tutto ciò: sceneggiatura banale (conflitti tra diversi modelli di replicanti? Zero; percezione di una pur minima tensione sociale? Zero), schiacciamento sullo schema drammaturgico dell’originale (indagine), cast replicante (Jared Leto è insopportabile come neo-creatore alla Tyrell; Mackenzie Davis è mortificata sfoggiando un look versione trash della Pris di Daryl Hannah; Robin Wright è noiosissima; Sylvia Hoeks, Ana de Armas e Carla Juri praticamente interscambiabili visto che ognuna avrebbe potuto recitare il ruolo dell’altra) e apertura finale che sa molto di cinica necessità da franchise e non di passionale idea per un sequel. Digitato ciò il film poteva essere un disastro, ci mancherebbe. È bello perché ligio e con la testa bassa rispetto al film del 1982. Come se si vergognasse di provare a essere qualcosa di diverso od originale (Villeneuve qui è solo uno shooter). Magari con i prossimi capitoli capiremo se emergerà una maggiore personalità.
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