ARPÓN (2017) di Tomás Espinoza – Torino Film Festival 35
- Eugenio Grenna
- 9 gen 2018
- Tempo di lettura: 3 min

Trentacinquesima edizione del Torino Film Festval. Nono film che sono riuscito a vedere tra i numerosi film proposti. Questa volta si tratta di un thriller anomalo, più dalle parti di Pablo Larrain e Pablo Trapero con degli accenni al cinema di Hitchcock. Un presiden (Germán de Silva) teme che nel suo istituto possano entrare oggetti pericolosi e passa le sue giornate a controllare gli zaini delle studentesse. In quello di una giovane ribelle, Cata (Nina Suárez), trova una siringa, usata per praticare iniezioni sulle labbra delle compagne. Dopo un incidente, la ragazza è affidata all’uomo che, malvolentieri, deve accudirla per un giorno. Il professore, German, è un uomo come tanti, disilluso, malinconico, ma innamorato. Il suo in ogni caso è però un amore tormentato, quello verso una prostituta con cui casualmente ha rapporti sessuali, finchè un giorno lei gli confessa di voler fare qualcosa di più e di essere dunque in partenza. Questo è il primo elemento svolta che turba la vita del preside German. Il secondo elemento svolta che turba la vita del preside German è rappresentato da un incidente, quello di Cata. Casualmente o non la ragazza si inietta nelle labbra una dose molto elevata di uno strano prodotto e questo comincia a causarle diverse problemi, finisce dunque all’ospedale ed in seguito sotto la sorveglianza e la cura di German, perchè la famiglia della ragazza si rivela introvabile. In queste ventiquattro ore cominciano però a presentarsi tanti, troppi problemi ed il preside potrebbe trovarsi nei guai fino al collo. Il film è un thriller perchè ad un certo momento c’è una sparizione e quindi il film comincia a fare suoi i classici stilemi del “vengeance movie” con momenti anche di una violenza fisica non da poco. Macchina a mano che pedina il personaggio, fotografia desaturata che rende più grigia e senza scampo l’esistenza di adulti e ragazzi, Arpon è un film in linea con la cinematografia argentina recente e col racconto, affondato interamente nel sociale, di cariche emotive represse, sospetti reciproci, bagliori di umanità. Per il suo esordio nel lungometraggio, Tomàs Espinoza sceglie la formula del thriller e combina il fantasma dell’abuso, l’adolescenza, in cui attorno a sé può accadere di registrare solo morte e apatia eppure la voglia di vivere è massima, e pulsa sotto il silenzio, pronta a sbucare per caso da una canzone rap o da una partita a ping pong con una prostituta. German non è il bruto che sembra essere: è un uomo che lotta quotidianamente per i suoi ragazzi e lo fa sporcandosi le mani, non restando alla scrivania dietro una porta chiusa. Però quei suoi interventi sono maldestri, appaiono ambigui, come la sua incursione nello spogliatoio femminile nell’ora di nuoto, e così la tensione si alza e lo spettatore è messo di fronte all’emergere di un sospetto, un pregiudizio, una presunzione di colpevolezza a venire. Nemmeno Mica, la prostituta, è quello che sembra, nel senso che non si esaurisce nel suo mestiere o nella sua schiavitù. E così è l’interiorità di Cata, vitale, sotto un’apparenza omologata, abbindolata da ideali effimeri. Il film di Espinoza riflette su pulsioni e discordanze, sul tema della responsabilità, e lo fa con pochi mezzi e pochi personaggi, mettendo a confronto la violenza cieca e la forza, invece positiva, delle vicinanza e della relazione, e attribuendo entrambe allo stesso personaggio, per dirne la complessità e l’impossibilità del giudizio. A tratti faticoso o troppo ellittico, il film vive di momenti che coinvolgono fortemente e di altri meno riusciti, e si chiude con lo stesso tono sospeso con cui si è svolto, lasciando decidere a noi se leggere un finale amaro oppure no.





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