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Mute (Id; 2018) di Duncan Jones


Naadirah (Seyneb Saleh): I don’t deserve you, Leo. I love you so much, but you don’t know me.

LA SINOSSI: Nel 2046, in una Berlino carica di immigrati e dove si incontrano e si scontrano Oriente e Occidente, come in una sorta di fantascientifica Casablanca, Leo Beiler è un barista muto disperatamente alla ricerca della sua amata. La donna è scomparsa e la ricerca nei bassifondi della città porta Leo in contatto con una coppia di chirurghi americani, che sembrano in qualche modo collegati al caso e di cui lui non sa se può fidarsi o meno.

COLLOCAZIONE TEMPORALE E SPAZIALE: Il 2046 in cui è ambientato il film arriva 11 anni dopo la costruzione della base lunare di Moon da parte delle Lunar Industries, dove i cloni di Sam Bell, interpretato da Sam Rockwell, gestivano le operazioni. Mute è ambientato nello stesso universo di Moon, e fa parte di una sorta di trilogia fantascientifica dove però i vari capitoli sono collegati in modo molto tenue, anche se ognuno rivelerà qualcosa in più sugli altri due.

“È un thriller ambientato nel futuro, ma non ruota intorno a qualche straordinaria tecnologia che potrebbe rivoluzionare i destini del mondo, né ci sono altri agganci fantascientifici. L’idea era di realizzare un film che potesse avere luogo in quasi qualsiasi periodo, ma che avesse comunque luogo nel futuro. È stato molto difficile farlo approvare perché tutti chiedevano come non potesse ambientato ai giorni nostri, ma non sarebbe possibile per una questione di tono e atmosfera”. Duncan Jones

IL COMMENTO: Si tratta per il regista Duncan Jones di un progetto profondamente personale e molto tormentato, infatti anche dopo le riprese iniziate nel settembre 2016 c’è stato un lungo lavoro di postproduzione, prima che finalmente Netflix annunciasse la sua data di diffusione. In passato Jones l’aveva persino considerato il proprio Don Chisciotte, riferendosi al quarantennale progetto di Terry Gilliam del capolavoro di Cervantes. D’altra parte il regista, figlio di David Bowie, dopo i fuochi d’artificio dell’esordio con Moon e poi il buon successo di Source Code, si è incagliato in un altro progetto laborioso che oltretutto non ha funzionato al botteghino: Warcraft. Mute costituisce quindi una sorta di ritorno alle origini, a una produzione più piccola e a una fantascienza meno roboante, che omaggia la Los Angeles di Blade Runner ma racconta una vicenda del tutto umana, immersa in un caleidoscopico melting pop culturale. Su quello che sembra essere il set utilizzato da Denis Villeneuve per Blade Runner 2049, Duncan Jones ha girato Mute. Design del futuro, scelta di colori e luci (quei i toni tra il viola e il blu che dominano molti film recenti) ma anche il mood sono i medesimi. Mute all’inizio fa un ottimo lavoro nel convincerci che il mondo che sta raccontando è dominato da una forma di romanticismo noir destinato all’infelicità dalla società infame in cui è nato. È lo stesso mondo di Moon, come si vede più di una volta nei notiziari che trattano la storia del clone tornato dalla Luna interpretato da Sam Rockwell. Protagonista della vicenda è il barista muto Leo Bailer, uno statuario Alexander Skarsgard che incarna perfettamente il personaggio scritto da Jones, privo di voce e di confessione Amish. Interessante infatti la scelta della religione di Leo, importante ai fini della decisione di non sottoporsi a un intervento per tornare a parlare, in quanto gli Amish rifiutano ogni modernità tecnologica, sia essa anche in campo medico. Leo perse l’uso delle corde vocali in giovanissima età, ma la sua fede lo aiutò a convivere con l’handicap e ad adattarsi a una società ultra-futuristica in stile Blade Runner, ambientazione che condivide tra l’altro con l’ultima Altered Carbon. C’è sempre questo cielo cupo e spento, con una pioggia e un grigiore esistenziale che sembrano non finire mai. Ammassi di grattacieli luminosi si stagliano poi sopra dei bassifondi dove la street-art dei graffiti sembra aver inglobato ogni parete, tanto da essere messa al bando. Il fumo esce sempre copioso dai vari tombini della Berlino del 2052, inondando le strade piene di luci e degrado di una leggera foschia che permea l’atmosfera quasi di melanconia. Alcuni americani non sono inoltre visti di buon occhio, tanto che una voce che risuona per le vie della capitale tedesca avvisa di segnalarne la presenza alle autorità competenti, il tutto accompagnato dallo slogan: “Don’t be shy, screw that guy!”. Sono loro gli immigrati e spesso clandestini, in un ribaltamento tematico davvero molto attuale, che va a inficiare anche pesantemente la trama orizzontale del film, che vede Leo alla ricerca della fidanzata scomparsa Naadirah. Il loro rapporto viene inizialmente quasi idealizzato, come se il loro amore riuscisse a cauterizzare ogni ferita, sia fisica che dell’anima. A lei non importa che Leo non abbia voce, perché il suo silenzio è rotto dalla profondità dei suoi occhi, dalla sua gentilezza, dalla sua dolcezza. Si bastano a vicenda per amarsi incondizionatamente, ma purtroppo i segreti di Naadirah spezzeranno questo incanto, portando Leo a una disperata ricerca del suo perduto amore. E lungo il suo cammino incontrerà due degli americani immigrati descritti sopra, entrambi chirurghi per la malavita, Cactus Bill, interpretato da un irritante Paul Rudd, e Duck Teddington, nei cui panni si nasconde invece Justin Theroux. Anche il loro rapporto è centrale ai fini della trama. Mute sarà anche il sequel spirituale di Moon, ma con il film del 2009 dello stesso Duncan Jones condivide purtroppo solo lo stesso universo narrativo. Il titolo sci-fi con venature cyberpunk prodotto da Netflix sembra non avere infatti il coraggio necessario per andare oltre un certo derivativismo di fondo che abbraccia un’ambientazione troppo simile a quella di Blade Runner e Altered Carbon, senza regalare poi una storia che riesca a sfruttarla a dovere. Si lascia guardare molto piacevolmente, anche grazie alla sentita interpretazione di Alexander Skarsgard e a quelle di Paul Rudd e Justin Theroux, ma dopo la visione resta un po’ poco dell’intera vicenda. A imprimersi è invece il significato che Jones ha voluto dare al progetto, salutando il padre scomparso da due anni nel silenzio della sua arte, che vale più di mille parole. In definitiva un film molto buono che avrebbe potuto essere davvero eccezionale. Ciò che rende Mute un prodotto meno efficace e centrato di quanto avrebbe potuto essere è la non eccelsa amalgama fra la disperata ricerca della sua amata da parte di Leo e le vicende dei corrotti e controversi Cactus e Duck, protagonisti di un’amicizia tormentata e contraddittoria, fatta di lotta contro i propri demoni interiori, ma anche di reciproca comprensione. Buono invece l’apporto da parte delle musiche di Clint Mansell (già autore della colonna sonora de Il cigno nero), che rendono loquaci i silenzi di Leo e sottolineano i passaggi più intensi. Anche nei passaggi a vuoto, Duncan Jones è abile a gestire il ritmo della narrazione e a dosare suggestioni e rivelazioni, puntando più su tematiche a lui particolarmente care che su virtuosismi alla regia, limitata invece a poco più di un compitino. Nel terzo atto, Mute trova così una propria sincera e apprezzabile strada, con le diverse sottotrame e le varie tematiche affrontate che confluiscono in uno straziante finale e in una struggente riflessione su cosa significhi realmente essere genitori e su quanto si possa essere disposti a fare per proteggere i propri figli. Per concludere, Mute si rivela un film imperfetto ma non privo di spunti interessanti, che testimonia il lampante talento di Duncan Jones nella costruzione di atmosfere e personaggi. Un film che sa fare riflettere sulla sempre più forte invasività della tecnologia nel costume, in camera da letto e purtroppo nella quotidianità di oguno di noi, che grazie allo sfruttamento di diversi punti di vista e una differente modalità ci mostrano sia i lati più cupi dell’animo umano sia una capacità di amare e sacrificarsi che nonostante tutto continua a germogliare. Un film con degli elementi molto buoni ma comunque imperfetto, avrebbe potuto aspirare a molto di più.

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