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End Of Justice – Nessuno è innocente (Roman J. Israel, Esq; 2018) di Dan Gilroy


“Sono stanco di fare l’impossibile per gli ingrati. Ora ho priorità più concrete” Roman J. Israel Esq.

“I veri nemici non sono all’esterno, ma all’interno” Roman J. Israel Esq.

LA SINOSSI:  Roman è avvocato a Los Angeles e lavora in uno studio che si occupa di clienti, appartenenti a classi sociali bisognose, spesso impossibilitati ad avere una difesa degna di questo nome. Roman, anche per il carattere che ha che lo spinge a non trattenersi dinanzi a palesi ingiustizie, è stato sempre tenuto dal suo collega William Jackson nelle retrovie a preparare la documentazione dei casi. Quando però William viene ricoverato in ospedale senza speranza di recupero tocca a Roman presentarsi in tribunale e già la prima causa gli crea dei problemi. Le cose si complicano quando lo studio viene chiuso e chi si deve occupare dell’operazione comprende le sue doti e ne vuole acquisire le competenze mettendole però a servizio del puro e semplice guadagno. Roman cerca di barcamenarsi fino a quando un giorno si fa tentare da un’azione illegale.

FATTI RIGUARDANTI IL FILM:  Denzel Washington ha ricevuto una nomination all’Oscar per questo film che rende indubbiamente omaggio al suo trasformismo ma che ha anche una sceneggiatura che disperde progressivamente le potenzialità dello script commettendo anche un errore in apertura.

IL COMMENTO:  Tony Gilroy alla sua seconda regia, dopo quell’interessantissimo film thriller di grande denuncia sociale, dalle tinte quasi horror (per quanto mi riguarda) che fu The Nightcrawler-Lo Sciacallo del 2014, torna nelle sale cinematografiche con un nuovo film a distanza di quattro lunghi anni. Ancora una volta si tratta di un prodotto cinematografico molto interessante, ma del tutto fuori dalle sue corde, o meglio, del tutto differente rispetto al precedente film, nonostante sporadici e minori punti di contatto. Ciò che ha reso questo film sicuramente più importante e dai forti richiami negli States a livello di pubblico (da noi in Italia invece è passato inosservato lo stesso) è la presenza nel cast di Denzel Washington, uno dei più grandi attori degli ultimi anni, qui nel ruolo di protagonista assoluto. Il titolo originale è molto interessante per comprendere la follia di questo film, ovvero Roman J. Israel Esq., un nome/titolo che il protagonista si ritroverà a dover spiegare spesso nel corso del film. Il titolo italiano è necessariamente e specificatamente legato al desiderio dell’incasso, attirare più pubblico con un titolo sicuramente più potente ma anche del tutto fuorviante, poichè si fa portatore di richiami cinematografici recenti in grado di attirare per quanto riguarda alcuni e specifici membri del cast, su tutti lo stesso Washington che negli ultimi anni ha preso parte a diversi film action-popcorn di grande intrattenimento come The Equalizer-Safe House e via dicendo. Infatti il titolo italiano è: End Of Justice – Nessuno è innocente.. un titolo assolutamente fuorviante, poichè sembra appartenere del tutto ad una proposta cinematografica differente, mi viene in mente il genere action. Una scelta totalmente legata al marketing e non al desiderio del regista e del film stesso. Solo un regista folle come Gilroy infatti avrebbe potuto combattere e scontrarsi con le major cinematografiche per ottenere un titolo così complicato, fuori portata e privo di richiami cinematografici come può essere Roman J. Israel Esq. Ci troviamo all’interno di un genere cinematografico solido e spesso visitato in seguito a trasposizioni letterarie, il legal thriller, di cui è Re assoluto il bravissimo scrittore John Grisham, dalle cui opere abbiamo avuto ottime trasposizioni cinematografiche quali: Rapporto Pelican (1993); Il cliente (1994); Il momento di uccidere (1996); La giuria (2003) e via dicendo. In questo caso però non è del tutto corretto inserire il film in questione all’interno del legal thriller tradizionale, poichè c’è anche molto dramma e diversi elementi che fanno pensare al cinema di denuncia sociale e politica e talvolta anche al cinema documentaristico. Gilroy sembra essere molto interessato al racconto di una società in cui non esiste più la giustizia nella sua accezione più totale, poichè anche i personaggi o le cariche portatrici di giustizia all’interno del film di Gilroy possono essere corruttibili o addirittura criminali, e questo già si cominciava a percepirlo anche all’interno del suo film precedente che però era meno cinico e meno spietato di questo. All’interno di End Of Justice continua questa riflessione o meglio, visione del mondo in una maniera decisamente più forte e più incisiva, poichè sceglie di raccontare la realtà quotidiana di un piccolo studio di avvocati, con i suoi problemi, le cause, le vittorie e le disgrazie. Necessariamente addentrandoci in un racconto cinematografico in cui gli avvocati sono i protagonisti assoluti (The Lincoln Lawyer in cui la posizione era neutrale), una visione negativa di questi ultimi assume immediatamente un significato maggiore e diventa molto potente, rispetto ad un racconto cinematografico in cui si privilegiano a livello di ruolo i classici criminali o gente per caso come protagonisti, mentre avvocati, giudici e poliziotti come figure secondarie e ruoli minori. C’è quindi questo elemento davvero molto forte dato dal raccontare i lati negativi, le contraddizioni, le paranoie e le violenze (psicologiche e non) perpetrate e messe in atto da questi avvocati senza scrupoli, ma anche giudici, uomini d’affari e via dicendo. Il film comincia con un avvocato decisamente antipatico e noioso, ma assolutamente integerrimo e rispettoso della legge che conosce peraltro a memoria articolo per articolo (D. Washington) che si ritrova a dover chiudere lo studio legale per cui ha lavorato per anni, avviato insieme a quello che lui ha sempre considerato il suo mentore ed il suo grande maestro, che all’inizio del film si è ammalato e rischia la vita, questo comincia sullo schermo senza che noi nemmeno lo vediamo. Non sono molti i film in cui si sceglie di puntare già in partenza su un protagonista dichiaratamente e palesemente antipatico, lo è senza ogni dubbio, a meno che dietro tutto ciò non ci sia un’ottima sceneggiatura e scrittura del personaggio. Si sa che nel cinema americano ci sono molte regole sull’arte di fare ottimi film, molte di queste regole sono dedicate al protagonista e alla sua scrittura, in grado sempre di fare da specchio al pubblico, quindi di risultare un “character” a tratti simpatizzante nei confronti del pubblico stesso, qualcuno in cui (nel caso) possiamo e vogliamo identificarci. Ecco, tutto questo questo all’interno di End Of Justice manca, è del tutto impossibile (o quasi) identificarsi con il protagonista, un personaggio davvero singolare, antipatico, scontroso, saccente, scorretto, contradditorio, ma anche divertente. Sono molti infatti i momenti all’interno del film (alcuni anche divertenti) legati al fatto che per gran parte della durata, Gilroy sceglie di vestire questo strampalato avvocato odioso e singolare con abiti assolutamente eccentrici, verrebbe da dire di un’altra epoca, per questo spesso verrà guardato storto e considerato un freak. Piano piano questo protagonista così particolare, interpretato da un eccezionale D. Washington si fa sempre più scorretto e irrispettoso nei confronti della legge stessa, arrivando a compiere atti illeciti che lo spaventeranno a tal punto da decidere di scappare con le sue cose ed un grosso furgone nel deserto. Si tratta di un cambiamento davvero profondo, legato ad una mutazione in termini di condizioni socio/economiche. Nella prima parte del film si tratta di un avvocato abbastanza modesto e tutto compreso nelle sue regole e conoscenze, nella seconda parte invece si tratta di un avvocato che comincia ad usare quelle stesse conoscenze per mettere in atto truffe, compiere illeciti, guadagnare soldi su soldi e quindi diventare lui stesso un criminale, tanto da cominciare una causa contro se stesso. Interessante la parte legata al nuovo lavoro di Roman J. Israel Esq. all’interno dello studio legale rinominato ed importante, capitanato dall’avvocato cinico ed altrettanto odioso, George Pierce, interpretato da un ottimo Colin Farrell, qui davvero a suo agio nei panni dello spietato, duro e incontrastabile. Per concludere, il film è buono senza dubbio, ma ci si rende immediatamente conto che avrebbe potuto essere decisamente ottimo se non grandioso. Qualcosa è andato storto, infatti ci sono degli errori e c’è qualche problema legato alla scrittura di alcuni momenti davvero importanti ai fini del film, tanto che proprio questi momenti scritti male risultano piatti, banali e non soddisfacenti. Un eccezionale Denzel Washington sicuramente risolleva le sorti di un film che sarebbe stato insoddisfacente. Interessante la forma tecnica del film che combina più generi e canoni cinematografici come il legal, il dramma, il thriller psicologico ed il documentario. La fotografia di Robert Elswit è molto buona,così come l’introspezione psicologica e accuratissima (dovuta in tutto e per tutto) all’interpretazione dello stesso Washington e non alla sceneggiatura. Perchè si crea per tutto il film una interessantissima e divertentissima scissione tra il protagonista del film (che appartiene ad un’epoca precisa) ed il contesto sociale in cui lo stesso si muove (che è un’altra epoca ancora). La sceneggiatura risulta frettolosa e molto spesso lacunosa, poichè non sembra desiderare mai l’approfondimento e la spiegazione di qualcosa che può davvero essere fondamentale ai fini del film. Così come la Los Angeles privata di ogni fascino cinematografico, nonostante l’ottima illuminazione in fotografia. Insomma, alcuni lati positivi ed altri negativi (forse fin troppi) che rendono il film godibile e sicuramente interessante, ma niente di eccezionale o grandioso come invece avrebbe potuto essere.

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